Per combattere davvero il caporalato. Difendere il lavoro per far diventare l’agroalimentare italiano più buono

Dietro i prodotti alimentari c’è una fatica del fare che deve essere valorizzata e tutelata

Per combattere davvero il caporalato. Difendere il lavoro per far diventare l’agroalimentare italiano più buono

Dietro il buon agroalimentare nazionale ci sono milioni di ore di lavoro. Un impegno quotidiano, duro, con ogni tempo, spesso senza badare al riposo. Un lavoro che affonda le sue radici nel passato contadino, ma che guarda alle nuove tecnologie che, spesso, proprio nei campi e nelle stalle trovano ampio uso. Fatica, comunque, molta. Fatica spesso – troppo spesso – non solo non riconosciuta ma mortificata e bistrattata, mal pagata e sfruttata anche (come è accaduto qualche giorno fa), fino alla morte.

Stando ai più recenti dati statistici (di fonte Inps e Eban, l’ente bilaterale per il lavoro agricolo), i lavoratori ufficiali in agricoltura sono circa un milione e 100mila, di questi, 900mila sono i cosiddetti “stagionali”, quelli cioè assunti a tempo determinato, quando ci sono grandi lavori da fare (soprattutto le raccolte di prodotti freschi che vanno a maturazione in breve tempo e che devono essere rapidamente immessi sul mercato). Sempre di più, come periodicamente viene ricordato dalle organizzazioni agricole, le necessità dell’agricoltura vengono sodisfatte da persone che arrivano da fuori Italia: dall’est ma anche dall’Asia. Un fenomeno alla luce del sole, che ormai ha creato solidi rapporti umani tra agricoltori italiani e operai un po’ di tutte le nazionalità. Stando ad una nota recente di Coldiretti, sono molte le comunità di lavoratori agricoli extracomunitari presenti nel nostro Paese: indiani, marocchini, albanesi, senegalesi, pakistani, tunisini, nigeriani, macedoni. “Il contributo dei flussi migratori – dicono i coltivatori – sostiene molti distretti agricoli dove i lavoratori stranieri sono una componente bene integrata nel tessuto economico e sociale come nel caso della raccolta delle fragole nel Veronese, della preparazione delle barbatelle in Friuli, delle mele in Trentino, della frutta in Emilia Romagna, dell’uva in Piemonte fino agli allevamenti da latte in Lombardia dove a svolgere l’attività di bergamini sono soprattutto gli indiani”.

Ma, anche con facilità in alcune aree, dalla luce del sole ci si può ritrovare nel buio dello sfruttamento. Un’oscurità che non riguarda solo alcune aree del Mezzogiorno. Secondo l’Osservatorio Placido Rizzotto Flai-Cgil, l’Agro pontino e la provincia di Latina sono tra le aree dove lo sfruttamento dei braccianti è più radicato, ma ci sono anche Caserta e Napoli, la Capitanata, le campagne piemontesi, quelle siciliane, il Fucino abruzzese, il Veneto. Delle 405 aree di caporalato diffuso oltre la metà è al Nord. A conti fatti, sarebbero circa 230mila i lavoratori agricoli sfruttati, 55mila sono donne e il 30% circa non sono extra-comunitari ma lavoratori europei. Tutto in barba ai controlli, alle certificazioni, ai capitolati d’appalto che obbligano a fornire garanzie sulla correttezza sociale e ambientale del lavoro. Certo, molto viene fatto dalle forze dell’ordine, dalle associazioni e organizzazioni agricole. Le inchieste delle procure testimoniano di questo sforzo. Stando sempre al rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto, il Sud ha oggi in corso circa 378 indagini, ma 229, riguardano il Centro-Nord e 227 il Centro.

Il problema – come sempre – sta nell’economia e in una cultura che si limita al profitto immediato. E’ più facile far quadrare i bilanci delle imprese sfruttando i più deboli. Per questo Fai-Cisl insiste: “Se davvero vogliamo dichiarare guerra al caporalato dobbiamo partire da una politica dei prezzi più giusta ma soprattutto da una efficace emersione di chi diventa irregolare: chi vuole lavorare e non ha commesso reati non può rimanere nel limbo allo scadere del contratto, parliamo di persone cui dobbiamo riconoscere dignità”. Giusto prezzo, quindi, come leva accanto a controlli più serrati e attenti. E tanta collaborazione. Che significa accoglienza e attenzione all’altro. Umanità. Qualcosa che si traduce non solo in regole da applicare severamente ma anche in buone pratiche di trasporto, alloggio e contrattualizzazione dei lavoratori. Anche – viene fatto notare da molti – nell’interesse delle tante imprese agricole che operano nella legalità e subiscono la concorrenza sleale di chi non applica i contratti. Una strategia che trova Coldiretti, Confagricoltura e Cia -Agricoltori Italiani e le altre organizzazioni d’accordo. E che vede di fatto schierata anche la distribuzione. Recentemente, Italmercati – che raccoglie i 22 principali mercati all’ingrosso nazionali – ha ricordato come da tempo queste strutture abbiano adottato un codice etico ma come vi siano molti, troppi, mercati all’ingrosso di piccole dimensioni che dovrebbero essere razionalizzati e coordinati per “garantire ai consumatori servizi di tracciabilità e sicurezza alimentare”. Mentre Federdistribuzione ha puntato il dito sulla stessa condizione strutturale della produzione agricola “caratterizzata da molte imprese troppo piccole che finiscono per essere preda di grossisti e intermediari senza scrupoli”.

Lavoro agricolo, dunque, da valorizzare e prima ancora da difendere. Solo così l’agroalimentare italiano sarà più buono.

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Fonte: Sir