Nel secondo grande focolaio dell’America Latina il Coronavirus è stato portato dai ricchi
Guayaquil, la metropoli ecuadoriana di circa 3 milioni di abitanti, che sorge sulla costa del Pacifico, è diventata rapidamente il secondo grande focolaio del coronavirus in America Latina, dopo quello di San Paolo del Brasile: quasi 1.500 persone positive, sui 2mila totali del Paese e gran parte delle 58 persone morte finora. In tale situazione l’arcidiocesi sta giocando un ruolo fondamentale, lo racconta al Sir l’arcivescovo, mons. Luis Gerardo Cabrera Herrera
Sul modo in cui il contagio è iniziato ci sono varie versioni. C’è chi parla di alcuni ecuadoriani residenti in Italia, venuti in Ecuador per una settimana di vacanza, chi di una persona proveniente dalla Spagna. Fatto sta che, come sta avvenendo in tutto il mondo, la cosa è stata un inizialmente trascurata. E Guayaquil, la metropoli ecuadoriana di circa 3 milioni di abitanti, che sorge sulla costa del Pacifico, è diventata rapidamente il secondo grande focolaio del coronavirus in America Latina, dopo quello di San Paolo del Brasile: quasi 1.500 persone positive, sui 2mila totali del Paese e gran parte delle 58 persone morte finora.
E si teme sia solo l’inizio di una vera catastrofe, complice anche la situazione economica e sociale dell’Ecuador.
“È arrivato attraverso chi viaggiava, si è diffuso durante alcune feste e ricevimenti, soprattutto tra le persone ricche – ci dice da Guayaquil Anastasio Gallego, uno dei responsabili nella città dell’Hogar de Cristo, il centro di accoglienza per poveri, senza dimora e migranti gestito in collaborazione con i gesuiti -. Infatti i contagiati sono in gran parte o dell’alta società oppure del segmento più basso, cioè chi alle feste prestava servizio. Sono pochi, invece i malati nella classe media”.
Dopo poche settimane. Guayaquil è una città fantasma. È tutto chiuso e dopo le 2 del pomeriggio c’è il coprifuoco.
Se la situazione è difficile un po’ per tutti, a farne le spese è soprattutto il gran numero di poveri, disoccupati, lavoratori precari (il 60% degli abitanti, in Ecuador), rifugiati venezuelani.
Campagna di solidarietà in ogni parrocchia. È in tale situazione che l’arcidiocesi di Guayaquil sta giocando un ruolo fondamentale. Ne parla al Sir
l’arcivescovo, monsignor Luis Gerardo Cabrera Herrera: “Ci siamo mossi in due direzioni. In primo luogo abbiamo sospeso la celebrazione delle Messe alla presenza di fedeli, assumendo e rispettando le decisioni prese dalle autorità politiche nazionali. Stiamo trasmettendo le celebrazioni attraverso i media e i canali social dell’arcidiocesi. In secondo luogo, abbiamo subito avviato una campagna di solidarietà, in collaborazione con ‘Diakonia’ e con il Banco alimentare. L’obiettivo è quello di portare nelle case delle persone più bisognose alimenti, generi di prima necessità e per l’igiene personale. Lo facciamo parrocchia per parrocchia, in modo capillare, attraverso delle persone incaricate e istruite per quanto riguarda le precauzioni da prendere”. Mons. Cabrera fa notare che
“all’inizio c’è stata disinformazione, gli allarmi non sono stati presi sul serio.
Ora si è presa coscienza della gravità di questa pandemia, vedo una reazione positiva nelle persone. Ringrazio anche i medici, che lavorano praticamente senza interruzione”.
Il dramma di disoccupati, senza dimora e rifugiati venezuelani. Certo, il contesto non è facile, prosegue Gallego, che esprime grande apprezzamento per quanto sta facendo l’arcidiocesi. “Ma c’è molta preoccupazione. Tutta la popolazione vive un durissimo coprifuoco, che inizia già alle 2.
Ci sono i militari per le strade, può uscire una persona alla volta e si entra nei supermercati in gruppi di persone molto ridotti. Le strutture sanitarie sono piene.
Per fortuna ci sono tre nuovi grandi ospedali costruiti dal precedente Governo, ma l’attuale ha ridotto di molto le spese sociali”. E poi ci sono i poveri, la maggioranza della popolazione: “Nel quartiere dove abbiamo il nostro Hogar de Cristo, che ora abbiamo dovuto chiudere, si arriva anche a 8 persone su 10 che non hanno un’occupazione stabile, la maggioranza fa lavori informali e precari. Per questo, l’iniziativa dell’arcidiocesi è importantissima”.
Ultimi tra gli ultimi, sono oggi i migranti venezuelani.
Solitamente, per loro l’Ecuador è un territorio di transito, verso le mete del Perù o del Cile. Ma attualmente sono comunque 250mila, e le frontiere sono chiuse: “Solo all’Hogar del Cristo negli ultimi tempi ne abbiamo assistito 14mila. Ora non sanno dove andare, ci sono famiglie con figli, c’è tanta gente che non sa dove andare. Vediamo qui i risultati di una mentalità individualista, di un sistema neoliberale brutale che si è imposto ultimamente in molte realtà latinoamericane”.
“Si rischia una catastrofe”. Poveri e migranti venezuelani, oltre naturalmente ai tanti malati, sono anche le preoccupazioni di padre Josetxo García, segretario esecutivo di Caritas Ecuador, con il quale allarghiamo il discorso a tutto il Paese: “Di fronte a questa emergenza,
non possiamo dimenticare che sei ecuadoriani su dieci non hanno un lavoro degno, che uno su cinque vive in povertà estrema.
Al momento, per quanto riguarda i contagi, l’unico grande focolaio è Guayaquil, dove all’inizio del contagio i primi allarmi non sono stati presi sul serio. Nella capitale Quito, dove vivo, le regole sono state rispettate da subito e i contagi sono molti meno (poco più di un centinaio, ndr). In molte province, comprese quelle amazzoniche, il numero di contagi è di poche unità e ci sono ferrei controlli sui trasporti. Siamo un po’ preoccupati per le isole Galapagos, dove i positivi sono 4. Lì manca un vero e proprio ospedale, anche solo un tampone va analizzato nel continente, e possono passare giorni”.
La situazione dei migranti, venezuelani e in minoranza colombiani, resta preoccupante: “Noi abbiamo alcuni centri di accoglienza. La scelta è stata quella di mettere in quarantena coloro che erano già presenti, senza però fare nuove accoglienze. E sappiamo che in strada ce ne sono altri”. Per quanto riguarda gli aiuti ai poveri, si va dalla raccolta e distribuzione di generi alimentari di Guayaquil e sottoscrizioni in denaro, come accade a Quito.
Anche se questo è il momento dell’emergenza, il segretario della Caritas non può fare a meno di pensare al futuro:
la pandemia coglie l’Ecuador in un periodo di crisi e di forti tagli sociali, che avevano causato in ottobre una sollevazione popolare di grandissime proporzioni.
“Ancora prima si verificassero qui i primi casi di Covid-19, avevo partecipato insieme ad altri rappresentanti di organizzazioni sociali a un incontro con il presidente della Repubblica Lenín Moreno – spiega padre Josetxo García -. Si era parlato di nuovi provvedimenti economici, della difficile congiuntura per il calo del prezzo del petrolio. il Governo ha prospettato di alzare alcune imposte. Il Paese non ha risorse economiche, sociali, mediche per fare fronte a un’ulteriore espansione del contagio. Si rischia veramente una catastrofe inimmaginabile”.