Meglio il Caffè Bruno, l'aroma dei missionari che impazza in tutta la Thailandia
Nei giorni dell'inaugurazione del primo, sontuoso, locale italiano della celeberrima catena di caffè Starbucks, c'è un altro caffè sempre più richiesto, è il Caffè Bruno, dei missionari triveneti in Thailandia, recentemente sbarcato nella capitale Bangkok con un bar monomarca che porta il suo nome.
Ci abitueremo a bere il caffè nel bicchierone di cartone made in Usa? Riuscirà Howard Schultz, il patron della catena di caffetterie più celebre al mondo con 43 mila locali in 77 Paesi, a sfondare anche in Italia? Quali vips erano presenti ieri sera all’inaugurazione più chic del momento?
Nel giorno dell’apertura al pubblico del primo Starbucks del Bel Paese – «il sogno di una vita», ha confessato Schultz al Corriere della sera – gli articoli più letti nei grandi network nazionali sono tutti di questo tenore. Certamente, l’arrivo anche da noi di uno dei brand alimentari più noti al grande pubblico è un fatto degno di nota. Soprattutto non apre esattamente in “baretto”, ma un locale da 2.300 metri quadrati riqualificando lo storico palazzo delle Poste in piazza Cordusio, nel cuore di Milano. Si tratta del secondo Starbucks più grande del pianeta dopo quello di Shangai (Cina), che ospita oltretutto la seconda rostery (o torrefazione) più importante della catena, «un omaggio al Paese del caffè», ha spiegato il patron.
Ebbene, mentre gli appassionati del genere accorrono in quello che promette di diventare un nuovo polo attrattivo del capoluogo lombardo, c’è un caffè dall’altra parte del mondo – dal puro aroma italico – che sta conoscendo una crescita vertiginosa. Il suo nome è Caffè Bruno e dai monti del profondo Nord Thailandese è da poco sbarcato nella capitale Bangkok con un locale a cui è stato dato in concessione il marchio: si tratta del caffè dell’istituto del Sacro Cuore, una grande scuola cattolica che accoglie ogni giorno 3 mila ragazzi dalla scuola dell’asilo al liceo. Alla madre superiora del convento annesso alla scuola è riuscita la piccola impresa a cui molti altri avevano dovuto rinunciare. Sono molte le caffetterie in Thailandia che vorrebbero quel marchio, ma i titolari selezionano con scrupolo le realtà a cui legarsi.
Ma chi c’è dietro all’Arabica che ogni mese, in sacchi e pacchetti, parte dal piccolo villaggio di Chae Hom per raggiungere tutto il Paese, comprese location balneari di primo piano come Puket e Pattaya? C’è niente meno che la missione delle chiese del Triveneto, presente nella diocesi di Chiang Mai dal 2000. Dei quattro preti veneti attivi in loco, oggi tre sono padovani: don Bruno Rossi (nella foto con il vescovo Francis Xavier Vira Arpondratana), don Raffaele Sandonà e don Attilio De Battisti. Il quarto è il bellunese di Falcade don Bruno Soppelsa. Sono loro che in poco più di cinque anni hanno fatto di un prodotto residuale della dieta delle popolazioni locali un prodotto ambito, premiato nel 2014 con la medaglia d’oro all’International coffee tasting (la maggior manifestazione del settore).
«Oggi vendiamo sette, otto, anche novecento chili al mese del nostro caffè – spiega don Bruno Rossi, l’anima di un progetto che, come si comprende, poggia su altri principi rispetto a Starbucks – La sua particolarità? La monorigine e la coltivazione biologica. Lo tostiamo in due gradazioni: “Espresso”, anche se non si tratta di un miscela, ottimo bevuto caldo, e poi la “Dark”, pensata per il caffè freddo, dato qui in Thailandia nel 98 per cento dei casi si consuma così».
Ma è la stessa filiera produttiva a sorprendere. Nella missione di Chae Hom è presente una tostatrice da 30 chili, donata da un benefattore che la smetteva, che ora sta per essere sostituita con una macchina più moderna. Qui arrivano le bacche coltivate da decine di piccoli agricoltori della zona. «Lo scorso anno abbiamo acquistato da loro circa 130 tonnellate di bacche – continua don Rossi – Significa tre mesi di lavoro per centinaia di persone. Il prezzo lo fa il progetto caffè promosso dalla casa reale thailandese, ma noi abbiamo deciso di pagare di più per sostenere la popolazione».
Una volta tostati, i chicchi di caffè vanno selezionati, confezionati e spediti. A tutte queste operazioni attendono quattro persone, più una ventina di studenti. Chae Hom infatti è uno dei centri in cui la missione accoglie giovani dai villaggi circostanti per permettere loro di studiare. È a favore di queste centinaia di ragazzi che vengono investite le cifre raccolte dai proventi del Caffè Bruno. Da tre anni, inoltre, sulla strada davanti al centro è attivo un piccolo bar gestito da marito e moglie: una vetrina che consente la vendita in tazza e in polvere della bevanda.
Il primo dei due locali a marchio Caffè Bruno è stato aperto due anni fa a due passi dalla cattedrale di Chiang Mai e appartiene alla diocesi. Al Caffè Duomo oggi gli introiti vanno a gonfie vele e, trainate dall’elisir missionario, funzionano anche le vendite di altri prodotti locali. In questo caso i ricavi servono all’evangelizzazione, come pure i guadagni del bar all’interno dell’istituto Sacro Cuore di Bangkok vengono impiegati per sostenere l’offerta formativa.
La grande richiesta sta facendo del caffè un mezzo potente – e impensato – per far conoscere la missione e attraverso di essa il Vangelo. «In questi anni i contatti si sono moltiplicati – conclude il sacerdote di Enego – Ci cercano molti italiani o stranieri che vengono in Thailandia per aprire locali, ma anche le autorità, interessate ai nostri metodi di agricoltura biologica sui quali abbiamo un progetto con l’università di Lampang».
E per il futuro non mancano certo i progetti. Chissà che un giorno ai grandi network di casa nostra non tocchi raccontare lo sbarco in Italia di Caffè Bruno. Quanto a vips ed effetti speciali nessun paragone con Starbucks, ma sull’aroma niente da invidiare.