La suora, i volontari e quel night club in Texas diventato rifugio per i richiedenti asilo
Un reportage dal confine tra Messico e Texas nel centro di accoglienza per i migranti che arrivano dal Centro America in cerca di una vita migliore negli Usa, scappando da miseria, violenza, persecuzioni. Sono uomini, donne e tanti bambini: hanno camminato giorni e giorni, sono spaventati e spesso non parlano una parola di inglese. Ad aspettarli, nutrirli, rassicurarli ci pensano sister Norma Pimentel e i volontari da tutti gli Stati Uniti
(McAllen-Texas) Sono le 11 del mattino e il sole picchia anche all’ombra, quando Jorge, 22 anni, texano e messicano insieme riceve una chiamata dagli agenti di frontiera. Hanno appena rilasciato 18 famiglie dai centri di detenzione e sono alla stazione dei bus in attesa che qualcuno dei volontari gli dia indicazioni sul Respite Center, il centro di accoglienza che la Caritas della valle di Rio Grande ha aperto a pochi metri dalla fermata principale.
Solo sister Norma Pimentel, con l’audacia e il coraggio dei profeti, poteva trasformare un night club in una casa per migliaia di migranti in fuga da miseria, guerre di bande, instabilità politica.Arrivano da El Salvador, Honduras, Guatemala, i paesi del triangolo della morte.
L’ingresso del centro a McAllen è buio, come si addice ad una pista per balli e spettacoli. Qualche neon illumina l’angolo bar ora farmacia, dove sono impilate le cartoline preparate dai bambini della città come segno di accoglienza e la zona guardaroba, ora banco per la registrazione e improvvisata sala d’attesa. Seguendo le frecce sul pavimento ci si ritrova nella sala mensa e nella rudimentale “boutique”, dove la luce naturale risplende su centinaia di materassi impilati ordinatamente e sulle scatole e gli scaffali di vestiti organizzati per taglia. Nella sala successiva accanto alle docce artigianali c’è la sala mensa dove i volontari stanno preparando i sandwich e le bottiglie d’acqua in attesa degli ultimi arrivati. Ed eccoli arrivare e varcare la porta del night smarriti e increduli. Tutti loro tengono per mano o in braccio un bambino o una bambina.
Alcuni hanno tra i sei e i sette anni e hanno camminato anche per 31 giorni.
Nell’altra mano gli adulti reggono pochi fogli, il loro lasciapassare per gli Usa, per la salvezza. Non hanno altro. Niente zaini, borse, vestiti di ricambio. Solo i jeans e le magliette che indossano e scarpe da tennis senza lacci. Gli agenti dell’immigrazione glieli hanno sequestrati appena messo piede nel centro di smistamento. E’ un’operazione di ruotine nelle carceri per impedire il suicidio di un detenuto, lo è diventata anche nel campo di McAllen, anche se queste mamme e papà non hanno commesso reati e si sono presentati ad una delle porte d’ingresso negli Usa, legalmente e con una richiesta ufficiale di asilo.
Sul loro volto si apre un timido sorriso quando i volontari li accolgono con un “Bienvenido” e cominciano a distribuire un elastico per capelli alle donne, una stella adesiva ai bambini e una busta con l’occorrente per una doccia e un cambio. Osservano con curiosità le pareti colorate dai disegni di chi li ha preceduti in questo esodo e che si sono fermati qui per una notte o un giorno, prima di riprendere il viaggio e ricongiungersi ad un parente in un altro stato americano. Jorge, che per questa mattina coordina gli arrivi, comincia a spiegare dove sono e li invita a sedersi in attesa della registrazione, mentre vengono distribuite bottiglie d’acqua e i bambini sono portati in sala mensa per ricevere i sandwich della colazione. Sono le 11.30 ed è il primo pasto da ieri pomeriggio.
Peter viene da Houston, Patti dal Colorado, Brittany dalla Pennsilvania, sono qui da qualche giorno o da qualche settimana come volontari e si commuovono seguendo questa processione lenta, sfinita e sollevata allo stesso tempo.
“Ci sono stati giorni – spiega Peter – in cui ne sono arrivati anche 800. La decisione della corte d’appello con cui si è stabilito che i richiedenti asilo, che giungono in Texas o New Messico senza aver prima fatto richiesta in Messico, saranno esclusi dalla protezione umanitaria, ha ridotto drasticamente i numeri. Ieri ad esempio è entrata solo una famiglia”. La nuova politica “Rimani in Messico” infatti ha generato una lista d’attesa infinita dall’altra parte della frontiera, dove i funzionari americani decidono i numeri da ammettere e non è raro che, parecchie mattine, le porte d’ingresso restino chiuse, mentre i rimpatri, in appena due mesi dall’entrata in vigore sono già arrivati ad oltre ventimila, spesso perchè i migranti non capiscono la lingua quando vengono chiamati e non hanno alcuna assistenza legale.
La decisione con cui la corte Suprema, mercoledì scorso, ha riconosciuto al Presidente la legittimità delle sue politiche migratorie, chiude definitivamente le diatribe tra i diversi tribunali locali e federali, che avevevano dichiarato illegale l’ordine esecutivo con cui Trump vietava di fatto l’asilo e costringeva i richiedenti a farlo nei paesi di transito o ad aprire pratiche costosissime nei paesi di provenienza.
Carmen e Juan, quindi, non sanno di essere tra gli ultimi ad attraversare il confine di McAllen e ad essere accolti da sister Norma. Sono hounduregni. Parlano solo spagnolo e hanno un bimbo di sei anni che non si stacca dal collo del papà. Mentre i loro compagni di avventura si siedono in attesa di essere registrati, Carmen e Juan si inginocchiano e si abbracciano. Su quella scrostata sedia blu poggiano la fronte e pregano in lacrime, stringendo in mezzo il piccolo.
Da quell’altare improvvisato levano un canto di gratitudine, certi che il Dio dei poveri li ascolta, anche se inginocchiati sul pavimento nero di un ex night club.
Il loro caso si aggiungerà agli altri 900 mila in attesa nei tribunali americani, dove una richiesta d’asilo impiega circa due anni prima di arrivare sul tavolo di un giudice e decidere per la permanenza o il rimpatrio. Intanto almeno per oggi, respirano libertà e respirano senza paura.