La febbre dell’oro in Venezuela, dove l'”Arco minero” è territorio da depredare. L’inascoltata denuncia della Chiesa
In un Paese ridotto alla fame da una politica dissennata c'è un territorio grande come l'intera Italia settentrionale ricchissimo di risorse estrattive. Il cosiddetto “Arco Minero dell’Orinoco”, lungo il grande fiume omonimo, è costellato di attività minerarie in mano a gruppi criminali e mafiosi, paramilitari: il risultato è un luogo di violenza, di deforestazione, di sfruttamento incontrollato. Mons. José Ángel Divasson Cilveti, vescovo emerito di Puerto Ayachuco e presidente della Repam, racconta l'impegno inesausto della Chiesa guardando al Sinodo amazzonico
E’ l’unica attività in grande crescita di un Paese in agonia, il Venezuela. Ma è un primato amaro, che genera ulteriore distruzione e crisi, anzi una vera e propria apocalisse sociale e ambientale. Uno sfruttamento intensivo e in gran parte illegale di un’area grande come l’intera Italia settentrionale. Stiamo parlando del cosiddetto “Arco Minero dell’Orinoco”, che prende il nome dalla forma del lungo percorso che compie il più grande fiume del Venezuela, l’Orinoco appunto. Soprattutto a sud del fiume, per centinaia di chilometri, in territorio amazzonico, si trovano immensi giacimenti d’oro, soprattutto, ma anche di diamanti, coltan, bauxite e altri metalli.
Un’area grande quanto l’Italia settentrionale in mano alle mafie e agli amici di Maduro. La vicenda mostra che lo sfruttamento della grande foresta e delle sue risorse ha molti responsabili: non c’è solo Bolsonaro, ma anche Maduro, non solo le multinazionali americane e canadesi, ma anche i colossi cinesi.
E, in Venezuela, è proprio l’oro delle miniere una delle principali fonti di finanziamento per la dittatura.
“Quella che viviamo nell’Arco Minero è una vera e propria febbre dell’oro – spiega al Sir Francisco Javier Velasco, leader sociale e referente dell’Osservatorio di ecologia politica -. L’area interessata è enorme, 106mila chilometri quadrati, una zona perlopiù forestale, ricca di biodiversità e di grandi depositi di acqua dolce. L’autorizzazione allo sfruttamento dell’Arco Minero risale ancora all’epoca di Hugo Chavez. Poi, però, a causa della situazione del Paese, molte compagnie hanno rinunciato”.
Al loro posto, “gruppi criminali e mafiosi, paramilitari, gruppi legati alle forze dell’ordine venezuelane. In molti casi estraggono oro, che serve a Maduro per tenersi in piedi. Militari e forze dell’ordine vicini al Presidente ottengono prebende e benefici”.
In molte zone le popolazioni originarie, come capita per esempio agli indigeni Pemones, “vengono minacciate e spinte a emigrare”, spesso cacciate dai loro territori, in una terra dove non esiste alcun rispetto dei diritti e possibilità di esigere giustizia.
“I frutti di questa situazione sono inquinamento, deforestazione, sradicamento della popolazione, aumento di malattie, come il ritorno della malaria”.
Anche l’Alto Commissario Onu per i Diritti dell’uomo, Michelle Bachelet, ha espresso qualche settimana fa la sua preoccupazione per l’impatto dello sfruttamento dell’Arco Minero sull’ambiente e sulle comunità indigene.
Sfruttamento senza guardare all’ambiente. Un quadro drammatico, che viene confermato al Sir da mons. José Ángel Divasson Cilveti, vescovo emerito di Puerto Ayachuco e presidente della Repam (Rete ecclesiale panamazzonica per il Venezuela): “La situazione dell’Arco Minero è nota da diversi anni, in particolare da quando il presidente Chávez avviò la sua politica mineraria, ma è peggiorata negli ultimi anni di Maduro”. L’Arco Minero, come detto. Una realtà da molti anni, ma, è stato creato ufficialmente e “istituzionalizzato” nel 2016 e il progetto prevedeva la partecipazione di numerose multinazionali. In realtà afferma il vescovo, “l’estrazione mineraria in tutta la zona è completamente illegale”. Del resto, “con la produzione di petrolio scesa a meno di un milione di barili, rispetto ai 3 milioni al giorno dell’era Chávez, il Governo di Maduro cerca di sfruttare al massimo le altre risorse del sottosuolo, senza guardare all’impatto ambientale”.
Speranze dal Sinodo e dalla società civile.
“La Chiesa ha avuto sempre una posizione critica, ma non è mai stata ascoltata – continua mons. Divasson -. Anche come Repam abbiamo presentato una circostanziata denuncia e abbiamo svolto varie attività informative.
La depredazione dell’Amazzonia prosegue, e nell’Arco Minero la piaga maggiore è appunto quello dell’attività mineraria illegale. Ci sono tutti: mafie, paramilitari, guerriglia colombiana”.
E’ avendo negli occhi questa realtà che mons. Divasson ha preso parte al Sinodo dell’Amazzonia, dopo aver fatto parte della Commissione pre-sinodale: “La speranza è reale, anche se bisogna dire che qui in Venezuela, con questo regime, non ci sono soluzioni in vista. La situazione è grave, ma non possiamo dimenticare che esistono molte forze, organizzazioni ambientaliste, Ong, che cercano di fare qualche piccolo passo in avanti.
Il Sinodo toccherà sicuramente anche questi temi, e rappresenta una presa di coscienza, una denuncia, che arriva a tutto il mondo. E questo sforzo della Chiesa si unisce a quello della società civile. Bisogna moltiplicare gli sforzi e andare avanti con coraggio”.