La colletta popolare per salvare l’unico ospedale. Mons. Barreto (Quibdó): “Caso emblematico di una situazione generalizzata”
Un disperato tentativo per salvare l’unico ospedale della poverissima regione. Commuove la Colombia, ma non smuove, al momento, le istituzioni, la colletta promossa dalla popolazione per aiutare i lavoratori e le lavoratrici dell’ospedale di Quibdó, capoluogo del dipartimento occidentale del Chocó. Da tempo costretti a turni estenuanti per far fronte al Covid-19, che anche in queste zone ha colpito forte e sta tornando in queste settimane a causa della variante omicron, i dipendenti dell’ospedale San Francisco de Asís non vedono lo stipendio da 5 mesi
Un disperato tentativo per salvare l’unico ospedale della poverissima regione. Commuove la Colombia, ma non smuove, al momento, le istituzioni, la colletta promossa dalla popolazione per aiutare i lavoratori e le lavoratrici dell’ospedale di Quibdó, capoluogo del dipartimento occidentale del Chocó. Da tempo costretti a turni estenuanti per far fronte al Covid-19, che anche in queste zone ha colpito forte e sta tornando in queste settimane a causa della variante omicron, i dipendenti dell’ospedale San Francisco de Asís non vedono lo stipendio da 5 mesi. Una situazione non nuova, dato che anche un anno fa si erano registrati ritardi nei pagamenti.
Così, la gente è scesa in strada, si è mobilitata spontaneamente, e sta raccogliendo fondi e generi di prima necessità per coloro che garantiscono la loro salute.
L’ospedale San Francesco d’Assisi è l’unica struttura di secondo livello del Chocó, il dipartimento più povero e probabilmente più dimenticato della Colombia, abitato in gran parte da afro e da indigeni. La struttura sanitaria è uno dei pochi servizi pubblici esistenti, peraltro con tantissime carenze dato che al suo interno non è possibile effettuare esami diagnostici come radiografie o tomografie. Esistono progetti, finora rimasti sulla carta, per trasformarlo in ospedale di terzo livello. Ma, in questo momento, è a rischio anche quel poco che c’è el’ospedale più vicino è quello di Medellín, a sei ore di macchina attraverso un percorso accidentato e pericoloso,
dato che ci troviamo in una delle zone a più alta densità di gruppi armati. Da Bogotá, però, non arrivano risposte e impegni. E uno dei pochi a ricordarsi di questa struttura che porta il nome del santo d’Assisi è stato Papa Francesco, che nell’aprile scorso ha donato alcuni dispositivi medici per fare fronte all’emergenza pandemica.
“Il popolo è nelle nostre mani”. “Ci siamo impegnati con tutte le nostre forze di fronte al Covid-19 – dice al Sir da Quibdó Cecilia Córdoba, giovane infermiera e rappresentante del locale sindacato -. E questo nonostante la situazione che viviamo.
Siamo qui tutti i giorni, con la pioggia e con il sole, anche se soffriamo la fame. Il popolo è nelle nostre mani, siamo un riferimento per un’area molto vasta (più o meno la superficie di Lombardia e Veneto messe insieme, ndr).
Arrivano in tanti dall’area rurale”.
Cecilia, mentre parliamo con lei, si trova nello stand, allestito ormai da settimane, dove si promuove la colletta e insieme si sostiene la protesta dei lavoratori. “La gente ci sta aiutando con questa iniziativa. Cerca concretamente di darci sostentamento e ci accompagna nelle nostre richieste. Chiediamo che la situazione di crisi di questo ospedale si risolva in modo definitivo.
Non lottiamo solo per il nostro salario, ma anche per garantire un servizio migliore,
perché l’ospedale sia dotato di adeguati dispositivi tecnologici, dato che non esistono apparecchi per fare radiografie, tomografie, ecografie e laparoscopie”.
Una storia tormentata, quella dell’ospedale, come ci spiega Manuel Gil, che a Quibdó ha l’incarico di “veedor de salud”, incarico previsto dall’ordinamento colombiano, una sorta di “garante della salute”. È lui a enumerare la lunga storia di segnalazioni, denunce, tentativi di sanare le perdite dell’ospedale San Francisco de Asís, fin dal 2011. Non mancano i pronunciamenti della Corte Costituzionale, come la sentenza A039 del 2017, volta a garantire il diritto alla salute. Nel 2018, in seguito alle proteste sfociate in un lungo sciopero civico, fu il Ministero della Salute, attraverso la Sovrintendenza nazionale (la cosiddetta Supersalud) a sanare i debiti fino a quel momento accumulati e a garantire la nuova gestione dell’ospedale.
“Ma dopo tre anni la situazione è tornata ai livelli precedenti – spiega Gil -. Ora dal Governo dicono che non c’è un neppure un ‘peso’, e ci troviamo in questa situazione, sia per gli stipendi che per le attrezzature. In caso di esami urgenti, si è costretti a fare ricorso a strutture private”.
Le cause della crisi, sono molteplici, secondo il garante della salute: “Nella nuova fase non ci si è appoggiati a un’altra struttura ospedaliera che accompagnasse lo sviluppo dell’ospedale. Poi, c’è stata una contabilità poco chiara”. Non manca una diffusa corruzione, “altrimenti non saremmo in questa situazione. Quando, di fronte all’emergenza Covid, sono state allestiti alcuni posti letto di terapia intensiva, che prima non esistevano, ci sono state minacce da parte di gruppi illegali, che chiedevano tangenti ed estorsioni. Va sottolineato che i 30 posti di terapia intensiva sono stati creati senza finanziamenti statali, ma attraverso donazioni di organismi internazionali”.
Per il futuro, Gil ritiene che “un intervento sia urgente, ma insieme va predisposto un piano di sviluppo con l’accompagnamento di un’altra struttura ospedaliera. Speriamo, poi, che grazie a fondi di cooperazione internazionale si riesca ad allestire un ospedale di terzo livello”.
Una terra dimenticata. Le vicissitudini dell’ospedale, del resto, non sorprendono e sono perfettamente in linea con la situazione complessiva dei servizi essenziali nel Chocó. Lo conferma al Sir il vescovo di Quibdó, mons. Juan Carlos Barreto, che partendo dall’ospedale allarga lo sguardo.
“Il Governo – spiega – non trasferisce ciò che dovrebbe pagare. E l’ospedale è tornato nella stessa situazione di qualche anno fa. In tal modo, il servizio sanitario è sempre più deficitario e vengono favorite le strutture private.
Ma quello dell’ospedale è un caso emblematico di una situazione generalizzata.
Il sistema educativo è praticamente inesistente, il livello di disoccupazione del Chocó è il più alto della Colombia, e così pure il tasso di povertà che raggiunge il 70 per cento”, mentre quello di povertà estrema sfiora il 40%, secondo i dati del Dane, l’Istituto statistico colombiano.
A questo si aggiunge la violenza, che avvolge tutto il dipartimento, con la presenza di numerosi gruppi armati che seminano morte e terrore, provocando ogni anno la fuga di centinaia di famiglie dalle loro abitazioni.
“Lo scorso anno abbiamo portato a termine con organismi ecclesiali e internazionali ben 6 missioni umanitarie, ma la situazione non migliora”.
“Eppure – conclude mons. Barreto -, di fronte alle nostre segnalazioni, lettere, proteste (numerose, infatti, le prese di posizione dei vescovi dell’Occidente e del Pacifico, negli ultimi anni, puntualmente riportate dal Sir, ndr) il Governo nega la situazione, dice che si sta facendo molto per il Chocó. Ha sbandierato la cattura del capo del Clan del Golfo Otoniel, ci sfida chiedendoci di ampliare le informazioni, come se non fosse suo dovere indagare rispetto alle denunce che riceve”. Ultima in ordine di tempo, una lettera rivolta al presidente della Repubblica Iván Duque, per chiedere un incontro urgente sulla situazione della regione.
(*) giornalista de “La vita del popolo”