L'auto-inchiesta per far uscire dall'invisibilità il lavoro sociale
Precario, frammentato, poco riconosciuto. È il lavoro di chi opera nei servizi educativi, formativi, sanitari e assistenziali. Online il questionario "Who cares"
BOLOGNA – Smontare l'invisibilità del lavoro sociale, sia per la sua importanza sia per le sue condizioni. È l'obiettivo dell'indagine “Who cares”, lanciata dal circolo Arci RitmoLento di Bologna attraverso un questionario on line. “Sono tre i risultati a cui puntiamo con questa ricerca – spiega il sociologo Gianluca De Angelis -: agire sulla consapevolezza dei lavoratori, costruire una base conoscitiva più ampia a supporto del sindacato e portare il ragionamento su un livello più ampio, perché i diritti di quei lavoratori sono i diritti di tutti”. La questione, insomma, è pubblica. Stiamo parlando, infatti, di chi lavora nei servizi educativi, formativi, sanitari, assistenziali ovvero di lavoratori che operano in settori esternalizzati dal pubblico a cooperative e realtà del privato sociale. “Spesso si tende a rinchiudere il lavoro di chi opera nel sociale in un perimetro che è quello della passione e non della professionalizzazione e a definire burnout e stress a cui questi lavoratori sono soggetti come problemi individuali quando in realtà sono collettivi”, afferma Valerio Tuccella, attivista del circolo RitmoLento.
Passione, impegno e rischio burnout: il mestiere dell'educatore
La campagna nasce dal libro “Il mestiere (im)possibile. L'educatore tra passione, impegno e rischio burnout” di Sara Arrighi, Laura Birtolo, Sara Loffredo, Serena Saggiorno (Edizioni Underground) presentato al circolo RitmoLento. Nel libro si parla della gestione psicofisica del lavoro nel settore “care”, dello stress di trovarsi sempre a contatto con persone in condizione di fragilità, della tensione psicologica a cui sono sottoposti. A queste problematiche si aggiungono quelle relative a contratti e salari. “Noi non siamo un sindacato, non vogliamo entrare in sedi contrattuali o salariali - continua Tuccella - Siamo una piattaforma che mira a organizzare, a ricomporre quella fetta di mondo del lavoro per costruirne un narrazione pubblica, per una presa di responsabilità dei soggetti che dovrebbero occuparsene. Un po' come per i rider, anche se lì si partiva da zero, mentre qui contratti e sindacati ci sono”.
I numeri del lavoro sociale
I numeri del settore sono difficili da quantificare. Nel 2015 Unioncamere parlava di 7.500 lavoratori solo a Bologna, “ma in Italia ci sono pochi strumenti per una raccolta dati precisa”, precisa De Angelis. E il comparto è ampio: si va dal lavoro di cura informale fatto soprattutto da donne in casa alla dimensione sanitaria, fino al lavoro retribuito nei servizi educativi e formativi fatti dal privato sociale. “Il questionario è stato costruito insieme ai lavoratori e io ho svolto il ruolo di facilitatore della discussione – spiega ancora De Angelis – La speranza è che chi lo compila capisca che si sta parlando del suo lavoro, che cresca la sua consapevolezza sulle condizioni di lavoro e che quella che viene vissuta come questione individuale diventi collettiva: perché il disagio psicofisico, il burnout deriva da condizioni determinate dall'organizzazione del lavoro che disumanizza una professione che, al contrario, dovrebbe essere estremamente umana”.
Nel settore rientrano ovviamente anche i lavoratori dell'accoglienza, tra cui quelli che dal 12 giugno si sono ritrovati, da un giorno all'altro, senza lavoro in seguito alla chiusura anticipata dell'hub regionale di Bologna. I promotori della campagna “Who cares” sono intervenuti con un post su Facebook sulla vicenda: “Riteniamo la chiusura senza preavviso del Centro Mattei un ulteriore attacco a quel poco che rimane dei modelli di integrazione sociale e culturale sul nostro territorio oltre che al lavoro degli operatori di un segmento del settore del welfare – quello dell'accoglienza – che è già sottoposto alle turbolenze di una narrazione razzista che accompagna le politiche del governo in carica, e che già a causa delle conseguenze dirette del Decreto sicurezza – come il ridimensionamento del progetto Sprar – rischiano di perdere il posto di lavoro e la propria sicurezza sociale ed economica”.