L’Orcolat. Era il 6 maggio 1976. Un giovedì. Per 55 interminabili secondi la terra tremò in Friuli (e non solo)
Sono trascorsi 45 anni da quella notte e il 6 maggio è ancora una volta un giovedì. In tempo di pandemia. E il ricordo, questa volta, viaggia sui social.
I primi ad accorgersi che qualcosa non andava furono gli animali. Loro hanno un sesto senso per queste cose. I cani coi loro latrati cercarono di dare l’allarme, ma invano.
L’Orcolat iniziò a dimenarsi alle 21 di una insolitamente calda serata “mariana”, stravolgendo l’esistenza di decine di migliaia di persone. C’era chi stava cenando, chi si stava preparando ad andare a dormire e chi a letto c’era già.
Era il 6 maggio 1976. Un giovedì. Per 55 interminabili secondi la terra tremò in Friuli (e non solo). Magnitudo 6.5 della scala Richter. I sismologi diranno più tardi che quello fu il quinto peggior evento sismico che abbia colpito l’Italia nel ‘900. Fu interessata un’area di oltre 5.500 chilometri quadrati. I morti furono 990, più di 100mila gli sfollati, 18mila le case distrutte e 75mila quelle danneggiate. Fra Udine e Pordenone, l’Orcolat (l’‘orcaccio’, come lo soprannominarono i friulani) rase al suolo 45 comuni. Tra questi Gemona, Venzone e Osoppo.
Sono trascorsi 45 anni da quella notte e il 6 maggio è ancora una volta un giovedì. In tempo di pandemia. E il ricordo, questa volta, viaggia sui social.
“Ricordo tutto di quella maledetta sera di 45 anni fa – ha scritto Ivano Cestra sulla pagina Fb ‘Sei di Gemona se…’ – . Una prima forte scossa ma innocua, come ad avvertirci che poteva arrivare una seconda più forte. E così fu. Subitamente, violentemente, funestamente. Avvenne tutto in 55 tragici secondi di orologio, ma lunghi come un inverno in Siberia. Mi ricordo il frastuono dei muri che crepavano e sbriciolavano attorno a me ed il fracasso di vetri, bottiglie, lampadari che si infrangevano. Mi ricordo la mano di mio papà che mi trascinò fuori dalla porta che dava sul cortile perché io non riuscivo proprio a muovere un passo e rimbalzavo tra uno stipite e l’altro, come in balía dei movimenti di una nave quando il mare è ‘forza 9’. Mi ricordo la polvere che subito ci avvolse e che penetrava nel naso, nella bocca, tra i vestiti, fra i capelli. Di colpo il buio. La corrente elettrica mancò immediatamente nelle strade e nelle abitazioni nella frazione di Ospedaletto di Gemona del Friuli dove abitava mio nonno. Uno scenario lunare, surreale e apocalittico, per quello che si poteva intravedere a quell’ora, paragonabile solo agli effetti di una guerra. E poi le grida, i pianti della gente disperata”. “C’era tanta polvere biancastra, finissima, impalpabile – racconta Mila Brollo sulla stessa pagina Fb –. Era dapprima sospesa nell’aria come a voler nascondere l’orrore, poi lentamente, in ore di giorni tanto lunghi d’aver dimenticato il tempo, si è posata su tutto, come una neve triste, senza leggerezza, senza magia. Era fatta di granelli di muri, di case, di esistenze, di memoria. Ha coperto tutto senza nascondere niente. Ancora oggi la sento nelle mie narici, come quel 6 maggio del 1976. Molte vite fa”. “Benché fossi una bambina – scrive Germana Copetti – mi ricordo come ieri quella notte; mia mamma che di corsa mi prende in braccio e mi porta fuori, la notte passata all’aperto, al buio, con l’eco delle grida delle persone e l’abbaiare dei cani. Il 6 maggio 1976 é una data che per i gemonesi vuol dire tutto; perdita, sofferenza, paura, ma anche solidarietà, amicizia e rinascita”.
Tante sono le foto in bianco e nero che accompagnano i post. Saltate fuori da un cassetto della memoria, prese da uno stipetto del comò. Ci sono quelle delle case sbriciolate dal sisma, riconoscibili a stento dai muretti di cinta, e ci sono quelle delle tende, case d’emergenza per decine di migliaia di persone. E ci sono le foto degli alpini, impegnati a distribuire pasti caldi a chi erano rimasti solo gli abiti che indossava quella notte. Non si contano i commenti che accompagnano questi scatti, intrisi di dolore e dignità. Gli alpini di allora, in servizio di leva in Friuli, si ritrovano sui social a condividere i loro ricordi.
Decine e decine di frammenti di memoria riaffiorano su Fb. Sono come tessere di un mosaico. Sono così tante che si corre il rischio di restarne travolti, ma se si ha la pazienza di ordinarle con cura, ne esce per “anastilosi della memoria” (la tecnica con le pietre numerate usata per ricostruire il duomo di Venzone, ndr) una cronaca precisa e dettagliata di quei giorni.
Nei post non rivive solo il dramma di quel giorno. Perché l’Orcolat il 6 maggio scosse la terra per 55 interminabili secondi (e tornò a scuoterla ancora nel settembre di quello stesso anno), ma incalcolabili sono i secondi, i minuti, le ore e i giorni abitati dalla solidarietà dalla determinazione della gente a rimettersi in piedi.
Il Consorzio Pro Loco Friuli Nord Est ha riproposto uno scritto di Stanislao Nievo (1928-2006), pubblicato su “La Fiera letteraria” il 16 maggio 1976. “Al mattino del 7 maggio – scriveva Nievo – un contadino salì sul tetto e rimise a posto le tegole. Poi scese. La ricostruzione del Friuli era iniziata. Le scosse continuavano, ma di giorno nessuno vi badava. Di notte era diverso. Arrivarono gli aiuti. Il Friuli ringraziò e disse che comunque poteva fare da solo, circa le possibilità tecniche di ricostruzione. I friulani sono tecnici magnifici per queste imprese. Li conoscono in tutto il mondo. Avevano soltanto bisogno dell’aiuto finanziario. Lo dissero con umiltà e fierezza, con la forza d’animo che in pochi giorni li ha resi famosi dappertutto”.
Raccontando la tenace determinazione dei friulani nel rimboccarsi le maniche per tornare ad una nuova “normalità”, c’è stato anche chi ha ricordato le parole di un celebre friulano, p. David Maria Turoldo (1916-1992). Parole, le sue, scritte subito dopo il sisma per la “sua” gente (pubblicate successivamente, nel 1980, in “Mia terra, addio…”), ma che, lette oggi, suonano come un monito a farsi forza, ricominciare a sperare iniziando a guardare oltre la pandemia, che più di un anno fa ha stravolto le nostre vite. “A ciascuno di noi, in umiltà, si impone una presa piena di coscienza per conoscere perfettamente cosa è in gioco anche in questo angolo di terra. E sapere cosa fare, come essere domani, cosa salvare del passato, cosa portarci dietro. (…) Una ricostruzione, per essere vera, perché sia segno di civiltà e abbia un valore, non può essere regalata. Una cosa la si deve fare con le proprie mani, allora la si ama. Una civiltà senza amori non è più una civiltà. Importante è inserire il tutto, anche l’inevitabile caos del dopo-terremoto, dentro il grande fiume della nostra storia e sentire subito che la ricostruzione o sarà globale, e cioè o coinvolgerà avanti tutto la stessa cultura friulana, o non sarà una vera ricostruzione. Non si costruisce nulla di buono, non si fa nulla impunemente, a prescindere dalla gente”.