Il Covid spinge la leadership al femminile, ma la parità è lontana
Per 2 donne manager su 3 pesa ancora il pregiudizio di genere e il work-life balance è un miraggio. Lo rivela una ricerca su oltre 600 manager e imprenditrici realizzata da People3.0 e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza
Manager molto determinate e più capaci di ascoltare, supportare e allenare i collaboratori di quanto non facciano i colleghi di sesso maschile, interessate tanto ai risultati quanto al benessere delle persone con cui lavorano. Più capaci di fare squadra, talento rivelatosi indispensabile nel corso della pandemia, ma ancora vittime di una disparità di genere diffusa che si concretizza in pregiudizio, salary gap e un work-life balance difficile quando non quasi impossibile: è questo il ritratto della leadership al femminile che emerge dalla ricerca realizzata da People3.0, cooperativa modenese specializzata nel benessere aziendale e nella felicità sul posto di lavoro, e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza con il coinvolgimento di oltre 600 manager e imprenditrici di tutta Italia, fra i 20 e i 60 anni.
“L’esperienza Covid-19 ha fatto emergere un nuovo stile di leadership che sta velocemente prendendo spazio: la caring leadership – spiega Anna Piacentini, Ceo di People3.0 –. Si tratta del modello secondo il quale il leader si prende cura delle proprie persone secondo il presupposto che solo attraverso l’attenzione alla qualità della relazione, della fiducia e alla reale valorizzazione della loro unicità, i collaboratori non solo si fidelizzano, ma diventano più resilienti, propositivi e danno il meglio. Durante la pandemia, il senso di vicinanza, la capacità di ascoltare, di supportare, di allenare il proprio team si sono rivelati fattori chiave di successo: i dati della ricerca evidenziano una naturale propensione femminile a sviluppare questo stile di coordinamento”. Si riconoscono nel modello della manager-coach, infatti, oltre il 50 per cento delle intervistate under 30 e oltre il 40 per cento nella fascia 30-50: “Ma il numero è in crescita – prosegue Piacentini –. Nelle aziende italiane questo stile manageriale è ancora poco diffuso, ma la pandemia ha accelerato i tempi e le condizioni sono mature perché questo cambiamento diventi realtà”.
Un cambiamento che dovrebbe portare a scardinare alcuni capisaldi della discriminazione di genere che anche manager e imprenditrici hanno affrontato e continuano ad affrontare quotidianamente: “Alla base del problema c’è un bias cognitivo molto radicato - spiega Piacentini -: la convinzione generale è che l’uomo sia naturalmente portato a ruoli di leadership mentre la donna deve dimostrare di meritarli. Una distorsione della realtà che spesso colpisce inconsapevolmente anche le stesse donne”. E che ha effetti concreti su molti aspetti della vita lavorativa: “Il 62 per cento del nostro campione non negozia un passaggio di retribuzione da più di un anno, incluso un 35 per cento che non lo fa addirittura da oltre tre. E il motivo che emerge dalle nostre interviste è che, nella maggior parte dei casi, le donne ritengono di doverlo fare solo dopo aver dimostrato il proprio valore e le proprie competenze mentre gli uomini negoziano in anticipo, accettando un incarico proposto anche prima di essersi misurati con la capacità di ricoprirlo in modo adeguato. Per questo c’è una minore presenza femminile nei ruoli apicali e bel l’80,8 per cento del nostro campione segnala di aver incontrato leader e manager di sesso maschile ampiamente sopravvalutati”. Rilevante, in questo senso, anche il dato sul pregiudizio di genere. Oltre il 70 per cento delle donne tra i 30 e 40 anni si è sentita ostacolata nel proprio percorso professionale da un pregiudizio legato al sesso di appartenenza e una manager su 4 nella fascia over 40 riferisce addirittura di aver percepito questo problema molto spesso.
A risentire della situazione è, molto spesso, l’equilibrio fra lavoro e vita privata: “Quasi i due terzi delle manager, il 62 per cento, dedicano tra le 40 e 50 e più ore settimanali al lavoro, con una media totale di 48 ore – evidenziano i docenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Barbara Barabaschi e Paolo Rizzi –: questo crea inevitabili difficoltà sul fronte personale e famigliare. Non a caso, quando interrogate sulle azioni utili a superare i problemi incontrati dalle donne lavoratrici, emerge una schiacciante priorità per lo sviluppo di percorsi di carriera che non penalizzino la maternità, leggi e finanziamenti che favoriscano la conciliazione famiglia-lavoro e la scelta di assetti istituzionali che promuovano la parità di genere”.
“Lungi dal voler essere esaustiva - conclude Piacentini - questa ricerca rappresenta un primo, importante passo per analizzare l’evoluzione del ruolo di leader e le sfide che le donne che aspirano a ruoli apicali devono ancora affrontare. Le nuove generazioni premono per gerarchie piatte e rapporti aperti con responsabili capaci di valorizzare talenti e promuovere lo sviluppo dei collaboratori”. Parallelamente, le esigenze dettate dalla gestione dei team in smartworking hanno evidenziato come, accanto alle capacità tecniche – assegnare obiettivi e utilizzare un approccio agile – sia sempre più importante la capacità di ascolto, di creare vicinanza e di mantenere vivo il senso di team anche a distanza. “Su queste basi, ne siamo convinti, si aprono nuove opportunità per la leadership al femminile. Ma anche per tutti quegli uomini che riconoscono come prioritario lavorare per le persone e non solo con le persone”.
“La componente femminile in università è prevalente: le studentesse superano i coetanei tra gli iscritti, tra i laureati in corso e tra chi consegue le votazioni più alte. Questo vantaggio di partenza viene subito perso con il passaggio dall’università al mercato del lavoro”, denuncia la preside della facoltà di Economia e Giurisprudenza dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza Anna Maria Fellegara. “Mantenendo l’esempio dell’università, le donne ai vertici della carriera sono in numero inferiore rispetto agli uomini; tuttavia esse ricoprono in molti casi incarichi di prestigio e di servizio nei confronti dell’intera comunità universitaria”. Cosa può fare, allora, l’università per evitare che questo gap nel passaggio tra formazione e lavoro permanga? “Credo che il contributo che possiamo dare sia molto importante: la nostra facoltà è impegnata a promuovere l’empowerment degli studenti, maschi e femmine, l’autoimprenditorialità e le cosiddette soft skills, ossia quelle competenze relazionali cruciali nel mercato del lavoro. Cerchiamo così di accrescere la consapevolezza delle studentesse del proprio valore, di formare persone in grado di prendersi responsabilità, nella convinzione che questo faccia bene sia agli uomini sia alle donne. Tutta la società, oltre che l’economia, possono trarre benefici dalla valorizzazione di questo potenziale inespresso che le donne possono dare e che rappresenta uno spreco che non ci possiamo più permettere. Ma soprattutto è un’opportunità per dare un futuro migliore al nostro Paese e alle generazioni di giovani, donne e uomini”.