Guerra civile in Myanmar: “È un genocidio a ritmo lento”
E’ guerra civile in Myanmar. Aumentano le persone in fuga dagli attacchi sproporzionati e violenti dei militari. Nella giungla, donne e bambini faticano a sopravvivere. Nella mancanza di cibo, igiene, acqua pulita, il rischio è la diffusione di malaria e dissenteria. I militari bloccano anche l’accesso agli aiuti umanitari. Due volontari sono stati uccisi mentre portavano sul motorino gli aiuti agli sfollati. Un “genocidio a ritmo lento”, dice padre Maurice Moe Aung, missionario originario di Loikaw che opera in Italia. “Se non vengono aiutati dalla Chiesa, gli sfollati non hanno nessuna speranza di sopravvivere”
Un “genocidio a ritmo lento”. E’ quanto sta avvenendo in Myanmar dove continuano gli attacchi dei militari contro la popolazione, gli incendi e la distruzione di case, scuole, ospedali e luoghi di culto, dove gli aiuti umanitari faticano ad arrivare agli sfollati e dove di giorno in giorno aumenta il rischio di morire per fame e malattie. A fare il punto della situazione al Sir sulla crisi birmana è padre Maurice Moe Aung, missionario originario di Loikaw che opera in Italia. Le foto inviate ritraggono rifugiati nella giungla, cadaveri di donne, edifici in fiamme. “Siamo nello Stato di Kayah. La gente sta scappando nella giungla per proteggersi da attacchi violenti e sproporzionati. Sono arrivati anche nella città di Loikaw dove ieri hanno colpito con artiglieria pesante una casa: un ragazzo è morto e il fratello è stato portato in ospedale. La gente quindi ha paura e scappa. I militari fanno un uso inaudito della forza e della violenza. Ma nella giungla, nascono altri problemi: mancanza di cibo, igiene e acqua pulita. Il rischio è la diffusione di malaria e dissenteria”. Ma nessun posto nel paese è al sicuro. Sempre ieri nella capitale di Yangon hanno incendiato una scuola dei musulmani.
Dalla presa del potere da parte della giunta militare con il golpe del 1 febbraio, si è purtroppo riaperto in Myanmar un altro fronte mai del tutto risolto: il conflitto contro le autonomie etniche regionali, facendo ripiombare il Paese sul baratro di una guerra civile diffusa. È quanto sta succedendo nello Stato del Karen, al confine con la Thailandia, nello stato di Chin, al confine con l’India, nello Stato del Kachin e del Kayah. Dappertutto sono in corso violenti scontri tra le forze della giunta e le Forze di difesa del popolo (il People’s Defence Force) formate da combattenti della resistenza civile. E dappertutto sono in aumento gli sfollati. “Si può usare il temine genocidio”, dice padre Maurice, “per la violenza sproporzionata che viene usata, per gli attacchi incondizionati anche contro donne e bambini, per l’uso delle armi. Stanno dividendo il popolo, mettendo uno contro l’altro, buddisti contro musulmani, etnia contro etnia.
Ma c’è una differenza rispetto al passato: la gente per fortuna conosce questi vecchi metodi e non si lascia dividere. Il popolo è molto più unito di prima, non c’è distinzione di razza e di fede nella lotta per la pace e la democrazia”.
La popolazione nello Stato del Kayah è a maggioranza cattolica e per questo la Chiesa qui è in prima linea nell’aiuto alla popolazione, attraverso l’allestimento e gestione di campi profughi, distribuzione di cibo e medicine. “Sono sempre di più le persone che decidono di lasciare le proprie case perché non si sentono al sicuro e senza l’aiuto della Chiesa locale, la gente non avrebbe la possibilità di sopravvivere”.
Volontari e religiosi stanno cercando di distribuire gli aiuti che arrivano dall’estero ma è difficilissimo. I militari hanno bloccato l’accesso agli aiuti umanitari.
“Solo noi preti con la veste talare, la bandiera bianca e il permesso possiamo muoverci ma non riusciamo a raggiungere tutti i luoghi. Arriviamo quindi nei villaggi più vicini, poi loro si organizzano per la distribuzione nei campi. Arrivano anche a piedi caricandosi i sacchi sulle spalle. Alcuni giorni fa, due ragazzi sono morti mentre portavano con i motorini gli aiuti agli sfollati. Hanno sparato anche dentro una casa per anziani gestita dalle suore”.
A nulla purtroppo è servito il Vertice ad aprile dei dieci Paesi Asean sulla crisi birmana dove era stato raggiunto un “consenso in cinque punti”. L’accordo chiedeva innanzitutto “la cessazione immediata della violenza in Myanmar” e “la massima moderazione”. L’Asean esortava quindi tutte le parti di iniziare un dialogo costruttivo per “cercare una soluzione pacifica nell’interesse del popolo”. E infine si era deciso di inviare un inviato speciale per facilitare la mediazione. “Il nostro appello – dice padre Maurice – è sempre lo stesso: che cessino di usare le armi e si ritorni ad un dialogo civile. Ma i militari sono duri di cuori e non vogliono rispettare gli accordi.
Le prospettive per i bimbi rifugiati nella giungla? Non ci sono. Se non vengono aiutati dalla Chiesa non hanno nessuna speranza. Sì, è un genocidio a ritmo lento”.