Gioco d’azzardo. Sardo (Com. terap. “Terra Promessa”): “Patologia che merita attenzione e cura per la guarigione”
"È importante l’esercizio della continua presa in carico del problema, per non abbandonare le persone che stanno vivendo un momento estremamente tragico della propria esistenza". Parla Angela Sardo, direttrice dal 1989 della Comunità terapeutica “Terra Promessa”, un progetto che nasce all’interno dell’"Associazione Casa Famiglia Rosetta" di Caltanissetta e che ha come principale obiettivo il reinserimento nella famiglia e nella società di persone con problemi di dipendenza patologica e disturbi comportamentali
“La relazione è necessaria per accompagnare la costruzione di un nuovo modo di pensare e agire”. Sono queste le parole di Angela Sardo, direttrice dal 1989 della Comunità terapeutica “Terra Promessa”, un progetto che nasce all’interno dell’”Associazione Casa Famiglia Rosetta” di Caltanissetta e che ha come principale obiettivo il reinserimento nella famiglia e nella società di persone con problemi di dipendenza patologica e disturbi comportamentali. L’abbiamo incontrata in occasione del convegno all’Università “Auxilium” di Roma che ha dato inizio alla manifestazione “Con l’azzardo non si gioca”, la quale ha in programma per il 6 aprile altri due eventi.
Gli studi e le ricerche più recenti indicano il fenomeno dell’azzardo come una vera e propria piaga sociale che non accenna ad arrestarsi. Quali sono le iniziative e gli strumenti operativi messi a disposizione dal progetto “Terra Promessa”?
La nostra organizzazione si è impegnata energicamente sul tema dell’azzardo a partire dal 2004 e, in particolare, lo fa in un servizio terapeutico-ambulatoriale dedicato a San Camillo de Lellis, un personaggio storico che testimonia come dall’azzardo vissuto in prima persona si possa trovare cura e guarigione nella spiritualità.
Il nostro è un percorso sistemico-relazionale che mette al centro la persona e il suo sistema di appartenenza. I genitori, i compagni, i figli, gli amici sono i tutor in terapia.
Questo significa che il percorso mette in discussione i vissuti personali e quegli aspetti che hanno compromesso le relazioni della persona.
Perciò, è un percorso prima di tutto educativo che recupera la rete di relazioni…
Assolutamente sì. Molto spesso, in assenza della famiglia, entrano in gioco nuovi attori: amici, parenti prossimi, ma anche datori di lavoro. Numerosi casi sono contrassegnati, infatti, dalla guida del datore di lavoro del giocatore e della giocatrice.
Il fenomeno del gioco d’azzardo ha determinato una vera e propria dipendenza patologica di massa anche tra i giovani. Eppure, c’è una tendenza, soprattutto in Italia, a sottostimare questa emergenza sociale. Come mai?
Credo che ci si abitui a tutto, anche al disastro, come l’azzardo che colpisce non solo la persona, ma anche la genitorialità, la filialità, la socialità e il mondo del lavoro.
Siamo più attenti a guardare il nostro Io, il nostro piccolo confine e a centrare la nostra progettualità sul quotidiano, senza alzare gli occhi per guardare l’altro che è accanto a noi.
Una rivoluzione è chiamata a guardarci dentro le nostre coscienze, a pensarci attenti ad una prossimità relazionale, che è la prima forma di cura verso l’altro. È nell’altro, infatti, che c’è realmente la possibilità di garantire il miglioramento sociale.
Quali suggerimenti si sente di dare ai parenti e agli amici delle vittime dell’azzardo?
Fondamentale è riconoscere che l’azzardo è una patologia e, in quanto tale, merita attenzione e cura per una possibile guarigione. Quindi, è molto importante l’esercizio della continua presa in carico del problema, per non abbandonare le persone che stanno vivendo un momento estremamente tragico della propria esistenza.
Mariaelena Iacovone