Dopo la tragedia di Vittoria. Borrometi: “Totale strafottenza nei confronti della legge e delle istituzioni”
Il giornalista sotto scorta racconta al Sir la realtà di Vittoria, teatro della tragedia che ha falciato la vita di due cuginetti di 11 e 12 anni, e dell'arroganza della mafia che la fa da padrona. “Serve più presenza dello Stato”, dice, “ma anche la Chiesa può e deve fare la sua parte”. E aggiunge: "Ho paura ma continuerò a raccontare la verità"
L’Italia piange la morte a Vittoria (Ragusa) dei cuginetti Alessio e Simone D’Antonio, 11 e 12 ani, falciati giovedì sera sul marciapiede della stradina dove abitavano da un Suv guidato dal 37enne Saro Greco, pregiudicato, con precedenti per armi e droga, figlio del “re” degli imballaggi del mercato di Vittoria, che guidava sotto l’effetto di alcol e di droga. Alessio è morto sul colpo; Simone, al quale l’auto ha tranciato le gambe, è spirato dopo quasi tre giorni d’agonia. Una tragedia che squarcia il velo su una realtà in cui la mafia la fa da padrona nel più totale disprezzo della legge. Una realtà che il siciliano Paolo Borrometi, giornalista di Tv2000 minacciato di morte e sotto scorta, conosce molto bene e denuncia da anni.
Paolo, qual è il volto di questo territorio?
E’ una realtà complicata, io la denuncio da anni e mi dispiace che per scoprirla ci sia voluta la morte di due bambini. Vittoria è il cuore pulsante di enormi interessi economici e imprenditoriali. Basti pensare al suo mercato ortofrutticolo: il più importante del sud Italia e il secondo a livello nazionale. L’anno scorso il Comune è stato sciolto per mafia.
“Ci vogliono muti, ma questo è il momento di urlare. Lo dobbiamo fare per noi, per i nostri figli, per i più piccoli come #Alessio e Simone. In posti come Vittoria ci vuole forte la presenza dello Stato. Se così non sarà è tutto finito”. Questo ha scritto in un tweet lo scorso 13 luglio…
Quando chiedo una maggiore presenza dello Stato non voglio assolutamente denigrare le Forze dell’ordine alle quali sono anzi molto grato. Ringrazio la Polizia che dopo pochi minuti ha rintracciato l’investitore e gli altri tre fuggitivi che erano in macchina con lui, ma purtroppo la coperta è corta. Lì c’è bisogno di un maggiore controllo del territorio, questa città non può essere in balia dei delinquenti. Le Forze dell’ordine ci sono, ma per controllare quel territorio servirebbero più uomini e mezzi; così invece le istituzioni sono di fatto disarmate. Il Suv andava a 160 chilometri orari in una stradina strettissima. Un comportamento criminale ritenuto normale da gente che non teme lo Stato ma vive con l’arroganza del sentirsi padroni di tutto al di sopra delle leggi. L’omicida è il figlio di uno degli imprenditori di riferimento di “Cosa nostra” oggi in carcere; quello che gli era accanto, Angelo Ventura, è il figlio del capo della “stidda”, l’altra mafia siciliana.
C’è una totale strafottenza nei confronti della legge e delle istituzioni. Questa gente si sente al di sopra di qualsiasi regola
Ecco perché lo Stato deve farsi sentire forte.
Come si è arrivati a questa situazione?
E’ il risultato di un incancrenirsi negli anni: anni in cui magistratura e Forze dell’ordine hanno fatto il proprio dovere ma la maggior parte dei cittadini si è girata dall’altra parte; anni in cui gli imprenditori si sono rassegnati a pagare il pizzo senza denunciare. Anche parte della Chiesa si è girata dall’altra parte e non ha fatto tutto quello che avrebbe dovuto e potuto fare.
Che cosa intende dire?
La Chiesa potrebbe e dovrebbe esercitare in quella realtà un ruolo educativo e culturale; invece troppo spesso è venuta meno. Non voglio generalizzare e non mi riferisco al vescovo di Ragusa, però alcuni sacerdoti avrebbero dovuto fare di più. I mafiosi sono scomunicati, ma questo concetto a Vittoria non è mai passato.
Molti di loro continuano a definirsi persone di fede e ad andare in chiesa nonostante i severi moniti di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e di Papa Francesco che ci insegnano che questi tutto sono, fuorché uomini di fede. Ricordo poche omelie del clero vittoriese in questo senso; la mia non è una polemica ma una richiesta costruttiva perché tutti dobbiamo fare squadra; serve una presenza forte di repressione e di cultura. E l’impegno educativo della Chiesa è strategico per dare un contributo culturale alla città.
C’è voluta la morte di don Pino Puglisi per far comprendere quale azione culturale stesse mettendo in piedi. Senza arrivare a situazioni limite, non chiedo a nessun sacerdote di fare l’eroe ma non posso dimenticare che quando l’anno scorso il Comune di Vittoria venne sciolto per mafia alcuni sacerdoti vittoriesi criticarono quella scelta.
Ha avuto modo di sentire i genitori dei due bambini? Alessandro D’Antonio, papà di Alessio, ha detto che vuole lasciare la casa dove ha visto morire suo figlio.
Li ho sentiti proprio ieri, i genitori di Alessio e di Simone. Dobbiamo stare loro accanto. Sono distrutti ma mi hanno chiesto di rappresentare il presidio affinché venga fatta giustizia. Il papà di Alessio mi ha detto che non invoca la pena di morte ma vuole giustizia secondo le leggi. Mi vengono i brividi a riferire le sue parole: “Non voglio un capro espiatorio, ma voglio che chi ha sbagliato paghi e non ci siano impuniti rispetto a quanto accaduto”. Mi ha chiesto di essere sentinella in questo e io gliel’ho promesso. Mi sono assunto con loro l’impegno di non far calare il sipario affinché la morte di Alessio e Simone abbia giustizia nel senso più pieno del termine.
E auspico che questa morte scuota dall’indifferenza e dall’omertà molte coscienze.
Ha subito un’aggressione che le ha provocato una menomazione permanente ad una spalla, l’anno scorso è sfuggito a un attentato mortale. Vive sotto scorta e continua a ricevere minacce agghiaccianti. Non ha paura?
Io ho paura sempre, ho paura di morire ma non posso fare diversamente. Ho sognato di fare il giornalista a nove anni, quando ho visto l’immagine della strage di Capaci. Sono siciliano e un giornalista che vede determinate cose non può girarsi dall’altra parte. Io non faccio nulla di eroico; raccontando la verità faccio semplicemente il mio dovere come fanno migliaia di giornalisti in questo Paese, soprattutto nelle periferie.