Ancora sull’astensionismo. Nota politica

All’orizzonte non compare nulla che dia l’impressione di poter arginare la deriva astensionistica. E lo sconforto è analogo a quello che si prova davanti all’andamento della natalità

Ancora sull’astensionismo. Nota politica

Purtroppo il problema dell’astensionismo è già sparito dai radar. Accade quasi sempre così, un coro di preoccupazioni appena si chiudono le urne e si stilano i primi bilanci, ma poi fino all’appuntamento elettorale successivo la questione ridiventa marginale. Tanto più quando ci si rende conto che, tutto considerato, la scarsa partecipazione colpisce a destra come a sinistra. Se si considera la singola tornata, infatti, gli analisti sono in grado di stimare quali partiti e schieramenti siano stati più penalizzati. Ma su una scala più ampia le oscillazioni si compensano. Non è più come un tempo quando si diceva che i partiti di sinistra erano più convincenti nel mobilitare i propri elettori e quindi l’astensionismo colpiva maggiormente l’altro versante. Un’altra epoca, altri partiti. Forse l’ultimo fenomeno rilevante in questo senso è stato l’irrompere sulla scena del Movimento 5 Stelle, che ha attinto dal bacino del non voto e per alcuni anni ha lievemente rallentato il calo della partecipazione. Ma si trattava, appunto, di una forza che almeno all’inizio raccoglieva consensi in maniera trasversale. Adesso all’orizzonte non compare nulla che dia l’impressione di poter arginare la deriva astensionistica. E lo sconforto è analogo a quello che si prova davanti all’andamento della natalità. Un parallelismo non arbitrario: la componente demografica è ben presente nella crisi della partecipazione elettorale.
Ormai non fa più notizia se in certe elezioni locali l’affluenza scende sotto il 50%.  Ma anche alle europee del giugno scorso i non votanti sono stati più dei votanti. Alle politiche i numeri sono storicamente più elevati. Dalla nascita della Repubblica al 1979 la partecipazione ha superato regolarmente il 90%. Quota 80% ha retto fino al 2008, ancora nel 2018 l’affluenza era oltre il 70%, ma nelle politiche di due anni fa è andato alle urne il 63,91% degli aventi diritto. Parlare di crollo non è un’esagerazione giornalistica e in democrazia la partecipazione elettorale non è un optional, è un elemento vitale, come non cessa di ricordare il Capo dello Stato, una delle poche voci che con tenacia cercano di sollecitare l’attenzione delle forze politiche al di là dei momentanei interessi di partito. Nel 2022 era stato presentato un “libro bianco” sull’astensionismo, frutto di una commissione di esperti che aveva analizzato il fenomeno e proposto alcuni rimedi tecnici anche molto concreti. Forse non avrebbero risolto un problema che ha motivazioni sociali e culturali complesse, comunque è rimasto quasi tutto sulla carta. Nel deserto di iniziative si è affacciata persino la provocatoria (ma fino a un certo punto) proposta di vincolare la validità delle elezioni a un quorum, come avviene per i referendum.
La miopia del mondo politico su questo tema è avvilente. Non ci si rende conto di come sia in gioco la stessa legittimazione democratica delle istituzioni. Si fa presto a rivendicare il mandato popolare – a tutti i livelli – quando anche la più robusta maggioranza in realtà è soltanto una minoranza relativamente più numerosa, se confrontata con l’insieme del corpo elettorale. Questa consapevolezza dovrebbe spingere a uno sforzo intenso e convergente, oltre gli schieramenti, per rilanciare la partecipazione e mettere così in sicurezza il sistema repubblicano. E allo stesso tempo dovrebbe consigliare prudenza nel momento in cui si portano avanti riforme che incidono profondamente sugli assetti istituzionali, cercando il più possibile il dialogo dentro e fuori il Parlamento.

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Fonte: Sir