Tra le sbarre, in ascolto. Don Mariano Dal Ponte è a guida della cappellania del circondariale da settembre
Il servizio, dopo 17 anni in Kenya, è a fianco di detenuti, ma anche agenti, operatori...
«Il carcere è un mondo complesso, chiuso, con dinamiche difficilmente comprensibili all’esterno. Bisogna saperci entrare in punta di piedi ogni giorno, perché è una realtà fragile, faticosa, a cui la cappellania può dare ascolto profondo». Dopo il suo rientro dal Kenya, dove è stato fidei donum per 17 anni e dal 2012 al 2019 direttore del centro Saint Martin di Nyahururu, don Mariano Dal Ponte da settembre 2020 è cappellano della Casa circondariale Due Palazzi. Lì sono detenute circa 200 persone in attesa di giudizio, con una sezione a pena attenuata per chi soffre di dipendenze e problemi di salute mentale.
Pur essendo già abituato a stare in mezzo ai poveri tra i poveri, don Mariano non nasconde la difficoltà della sua nuova missione, ma sa bene da dove partire. È la relazione a fare la differenza: quella che si fa spazio con discrezione, senza forzare tempi e modalità di nessuno. «Molti di coloro che entrano ed escono dal circondariale sono senza fissa dimora che compiono piccoli furti maldestri. Scontano pene brevi e, molto spesso, una volta usciti non sanno dove andare. Nella maggior parte dei casi, dunque, non si ha a che fare con chi la vita criminale la conosce bene...».
C’è una sola cosa da fare: praticare la semplicità della relazione perché «solo così si può creare qualche forma di accompagnamento delle persone. Al momento servono piccoli segni che indichino la presenza della cappellania. Appena arrivato, avevo notato che negli uffici c’erano alcune fotografie di amici defunti e così a novembre scorso ho celebrato per gli agenti una messa all’aperto in ricordo dei loro colleghi e dei loro cari. Lo hanno apprezzato molto ed è stata un’opportunità per conoscersi e avvicinarsi. Nutro così un desiderio: appena i tempi lo consentiranno, mi piacerebbe invitarli tutti a Montà (dove don Mariano risiede, ndr) per una celebrazione insieme e per un momento di convivialità».
Gli agenti di polizia penitenziaria, che al circondariale sono circa un centinaio, in gran parte provengono dal Sud Italia, non hanno legami con Padova e vivono il lavoro nella costante attesa di essere riavvicinati presto alla loro terra d’origine. «È gente sola, sradicata – continua don Mariano – e portano su di sé stereotipi pesanti da trasformare. Il lavoro che svolgono è difficile e la stanchezza si nasconde dietro l’angolo: sono subissati costantemente da mille domande poste dai detenuti, vivono in mezzo al frastuono delle richieste e devono sempre stare in un precario equilibrio per gestire il conflitto. Svolgono davvero un servizio delicato». Fuori, non ce ne rendiamo conto.
La sfida
Dopo 17 anni anni in Kenya, a stretto contatto con le fragilità, in primis la disabilità e poi la povertà, le dipendenze, l’esclusione sociale... esistono differenze con la nuova realtà in cui don Mariano Dal Ponte ora vive il proprio ministero? «Paradossalmente no. Per me stare accanto ai vulnerabili è più vicino al mio modo di concepire il presbiterato, è anche un canale privilegiato per incontrare Dio». Don Mariano ha scelto di vivere la fatica delle storie, perché l’umanità è sempre la stessa, a qualsiasi latitudine. «Al centro c’è un unico bisogno: qualcuno che ti ascolti. E mentre lo faccio accetto la fatica di vedere che il Signore vuol far luce su quella vita, nonostante le responsabilità che non devono mai essere negate. Voglio scommettere sull’utilità di ogni esistenza, perché per Dio nessuno è da buttare. Un ragazzo continuava a ripetermi: “Padre, sono spacciato, sono spacciato...”. Davanti a quell’implorazione sofferente, mi sono detto ancora una volta che devo lavorare molto di più perché quella frase non sia più vera».