Mons. Giampaolo Dianin. Vescovo con la fedeltà alla Parola come bussola
L’apostolo Paolo lasciò l’amico Tito a Creta perché mettesse ordine in quello che rimaneva da fare... Oltre caricargli sulle spalle il peso dell’episcopato, si sentì in dovere di offrirgli una serie di consigli.
Il vescovo, infatti, come amministratore di Dio deve essere irreprensibile: non arrogante, non collerico, non dedito al vino, non violento, non avido di guadagni disonesti, ma ospitale, amante del bene, assennato, giusto, santo, padrone di sé, fedele alla Parola, degna di fede che gli è stata insegnata perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare i suoi oppositori (Tt 1,5-9). Uno sano di mente avrebbe dovuto fare come Giona, imbarcarsi su una nave diretta da tutt’altra parte. Non così Tito, a quanto pare. E non così l’amico Giampaolo che potrebbe rispondere che tutte quelle cose le ha osservate fin dalla sua giovinezza (Mc 10,20). Affermazione che posso confermare dal momento che le nostre strade si sono incrociate a Tencarola, nei corridoi e nei cortili del Seminario minore, quando eravamo poco più che bambini, in prima media, nell’ottobre del 1973. Per essere precisi stavamo in due sezioni diverse, lui in quella di francese e io in quella d’inglese. In ogni caso, anche se non eravamo in classe insieme, se non studiavamo nella stessa aula, non dormivamo nello stesso dormitorio e, se non ricordo male, non mangiavamo nella stessa tavola, non passava inosservato. Ma non era per la sua stravaganza, quanto piuttosto per la sua precisa, disciplinata normalità. Sul futuro presbiterale di alcuni di noi, soprattutto della nostra sezione, pochi avrebbero scommesso, ma su Giampaolo si poteva mettere la mano sul fuoco. Come il giovane Samuele ce l’aveva scritta in faccia e nel portamento la vocazione. Sembrava già allora un prete fatto e finito. Poi, grazie a Dio, anche lui ha avuto la sua conversione che l’ha, come dire, umanizzato. Senza perdere la sua maniacale precisione, la sua ossessiva cura per l’ordine, la sua ostinata resistenza sui libri, si è lasciato andare. E, lasciandosi andare, ha incontrato uomini e donne con le loro storie. Vite che non coincidono mai perfettamente con i casi umani previsti dai manuali di spiritualità o di morale. Ha ricevuto la grazia dell’imperfezione.
Caro Giampaolo, discostandomi da san Paolo e da quello che augurò all’amico Tito, potrei dirti di non preoccuparti se non sarai sempre irreprensibile, se nella tua libreria qualche libro sarà fuori posto, se qualche volta perderai le staffe. Neppure se una sera ti troverai a bere un bicchiere in più (a condizione che il vino sia buono e sia condiviso con gli amici). E, a proposito dell’essere ospitale ti consiglierei di evitare le due ideologie che vanno di moda in questi anni. Quella del ponte e quella del muro. Nella Bibbia non si parla tanto di ponti o di muri, nelle storie bibliche sono importanti le porte. E le porte possono essere aperte o chiuse, sbarrate o spalancate, socchiuse o accostate.
Caro Giampaolo, ti auguro la sapienza di comprendere quando è ora di chiudere o di aprire la porta del cuore, quando è ora di spalancarla per farci entrare aria fresca, e quando di chiuderla a chiave per non perdere la pace. La fedeltà alla Parola, come dice l’apostolo Paolo a Tito, possa essere la tua bussola per la navigazione nelle acque di Chioggia, la città dove andrai ad abitare. Che è sulla riva del mare, come Cafarnao. Come a Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni, il Signore ti chiede per l’ennesima volta di lasciare tutto e di non temere, per continuare a essere pescatore di uomini vivi (Lc 5,10).
don Giancarlo Gambasin e i compagni di ordinazione presbiterale
7 giugno 1987