Esseri missionari in Ecuador durante il Coronavirus: la storia dei coniugi Brunone
A metà febbraio la vita qui in Ecuador si svolgeva normalmente ... il Coronavirus esisteva solamente nei racconti delle nostre famiglie in Italia, nelle notizie che leggevamo e appariva come una realtà lontanissima da qui.
Fino a quando sono stati identificati i primi contagiati, sono iniziati i primi avvertimenti, restrizioni e si è sfociati nella situazione tragica che stiamo vivendo attualmente. Siamo tutti uguali, nessuno è al sicuro e chiunque può essere colpito dal virus, è vero però che alcuni sono più al sicuro di altri. Chi si può permettere di stare tranquillo, chiuso in casa e ha la possibilità di uscire per fare la spesa vive una ‘quarantena’ sicuramente diversa da chi vive nelle baracche, senza servizi basici, con il dengue che colpisce, costretto in 10 in un unico ambiente, dove molte volte la scelta di stare in casa non può essere fatta, perché se non esco a guadagnarmi quei pochi dollari non posso provvedere alla cena di stasera per la mia famiglia.
Noi missionari ovviamente cerchiamo di tutelarci al massimo, anche perché, come tutti, purtroppo non ci possiamo fidare del sistema sanitario, praticamente inesistente, che con molta difficoltà sta assistendo i pazienti Covid-positivi, ma allo stesso tempo cerchiamo di stare vicino alle nostre comunità, ovvero le due parrocchie di San Francisco de Asis e Nuestra Señora del Perpetuo Socorro e le comunità del campo. I momenti di comunità sicuramente mancano a tutti. Spesso ci sentiamo con i parrocchiani, per due parole, per raccontarsi un po’, per ascoltarli, magari fare due battute e per assicurarsi della salute reciproca. È bello vedere come le persone siano preoccupate per noi, comunque ‘stranieri’ in questa terra, e per le nostre famiglie in Italia. I sacerdoti don Saverio e don Mattia si sono organizzati con la celebrazione delle messe e di altri momenti online, continuando a condividere spunti di riflessione e stimoli per i parrocchiani, così da farci sentire tutti meno ‘abbandonati’. Poi ci sono le comunità del campo, anche con loro continua un rapporto telefonico, con chi è possibile, soprattutto con i referenti delle comunità. Proprio con queste comunicazioni ci hanno segnalato le loro difficoltà a reperire alimenti. Non possono uscire neanche a pescare e senza questa entrata economica non si possono permettere di avvicinarsi alla città per fare spese. Così all’isolamento dovuto alla stagione delle piogge, tutt’ora in corso, si somma quello dovuto al virus e da lì la difficoltà ulteriore di procurarsi il cibo necessario per la famiglia.
È per questo che come equipe missionaria abbiamo pensato di organizzare ‘un kit di viveri’, composto dai cibi maggiormente utilizzati qui come platano, riso, legumi, pollo e alcune verdure e di andare al campo per la distribuzione. Non abbiamo fatto distinzioni includendo nei beneficiari non solo chi partecipa alle nostre attività pastorali e sociali, l’aiuto voleva essere per tutti gli abitati della comunità, indistintamente. In questo modo sperimentiamo quanto unisce il pane e quanto divide, purtroppo, la religione. È stato davvero un bel segno ricevere donazioni dagli stessi parrocchiani, che pur nelle loro difficoltà, hanno voluto collaborare agli aiuti dopo aver saputo dell’iniziativa. Abbiamo cercato di ottimizzare il tempo e di far mantenere, per quello che si poteva, condizioni di sicurezza con protezioni, distanza e velocità di distribuzione per cercare i ridurre le possibilità di contagio. Ad oggi siamo riusciti a rispondere a tre delle cinque comunità che seguiamo, con un totale di 165 famiglie, e ci stiamo organizzando per la quarta, a cui si aggiungono una cinquantina di famiglie delle parrocchie raggiunte grazie all’aiuto delle Caritas parrocchiali. Forse è superfluo dire che la gente è stata contentissima del nostro arrivo: chi ci ha ringraziati a parole, chi sventolando rosari, chi con uno sguardo, dileguandosi il più velocemente possibile. La cosa più bella è che non è stato solo distribuire viveri, che basteranno forse per qualche giorno/settimana, ma far sentire a queste persone che qualcuno sta pensando a loro e che dietro quelle mascherine, anche se con risorse differenti, stiamo vivendo tutti la stessa cosa. Prima di organizzare questi aiuti, in una chiamata a una referente delle comunità dicevo: ‘Mi raccomando, non ti preoccupare, che anche se lontani, noi non ci siamo dimenticati di voi!’ e lei ‘Io questo non l’ho pensato neanche per un attimo!’. Questo rapporto di fiducia e di scambio reciproco è quello che stiamo coltivando e cercando di rafforzare sempre più, per essere fratelli e sorelle anche se di terre straniere.
Crediamo sia giunto il momento per noi missionari, non solo del “restare”, ma lì dove si può, come si può di mettersi in gioco, di lasciare da parte teorie o giudizi sul fatto che quello che facciamo sia o non sia assistenzialista e di “fare” atti di solidarietà, anche se con gesti semplici, ci viene chiesto di metterci la faccia come Gesù ha messo la faccia per noi, anche noi ora dobbiamo metterla per Gesù che vive nel povero e nell’abbandonato.
Francesca e Alessandro Brunone