Ecuador. Dove “fare Chiesa” sa di futuro. Il vescovo Filippo Franceschi intuì che i suoi preti sarebbero stati meglio impiegati nelle città
Il vescovo Filippo Franceschi, appena nominato, intuì che i suoi preti sarebbero stati meglio impiegati nei grandi agglomerati che si stavano formando
La versione più emotiva della storia narra come il nuovo vescovo di Padova, Filippo Franceschi, nella sua prima visita in Ecuador, nel 1982, a pochi mesi dalla nomina, fosse rimasto colpito dall’asprezza delle condizioni ambientali e pastorali dei fidei donum padovani negli sperduti villaggi della valle del rio Mira, in diocesi di Tulcan, e dell’Intag, in diocesi di Ibarra, piuttosto che sulle coste di Esmeraldas.
La versione più razionale sottolinea, piuttosto, come il presule avesse maturato la convinzione che i suoi sacerdoti, per formazione e cultura, potessero più proficuamente impiegarsi nelle grandi periferie urbane che proprio in quegli anni si formavano assecondando un flusso irruento e spesso sregolato di migrazione interna.
«Mons. Franceschi – ricorda don Valentino Sguotti che ha ricevuto da lui il crocifisso in uno degli ultimi, commoventi gesti pubblici del suo episcopato – sentiva come sua creatura il “Progetto periferie” ed era convinto che fosse lì, nelle megalopoli in formazione, che si sarebbe giocato il futuro della fede in Ecuador e nel Sud del mondo. Era importante che mettessimo lì a frutto la nostra esperienza di parrocchia-comunità per dare un volto a barrios abitati da persone di diversa etnia, che arrivavano da tutte le parti del Paese per ammucchiarsi in aree di urbanizzazione spesso prive anche dei servizi essenziali». Con questa scelta il vescovo Filippo chiedeva alla sua Chiesa di misurarsi con i grandi problemi e le enormi contraddizioni e ingiustizie che rendevano le nuove metropoli delle polveriere. Una scelta che può illuminare anche l’oggi quando il nuovo fenomeno migratorio globale coinvolge e interroga il nostro mondo e anche la nostra Chiesa.
In base a questo progetto, il 21 aprile 1983 don Giorgio Friso passò da Intag a Carcelen, periferia nord di Quito, dove già operavano da due anni le Elisabettine di Padova, per fondare la parrocchia di Maria Reina del mundo. A ottobre, lo raggiunse don Egidio Leonardi, che già aveva lavorato a Quito, con i Giuseppini, e poi era passato a Ibarra. «Per noi che avevamo fatto esperienza nel campo, nei caseiros sperduti nella foresta andina – testimonia don Friso – non fu così difficile adattarsi alla situazione, perché spesso incontravamo gli stessi montanari, austeri, dalla religiosità tradizionale, che venivano in città, per trovare lavoro ed educazione per i figli».
La situazione di Carcelen era però molto disomogenea: c’era un vecchio barrio, il Corazon de Jesus, con famiglie indios residenti da sempre; c’erano aree in corso di urbanizzazione, con case per la classe media o popolare; e c’era un bosco d’eucalipti a Carapungo, che iniziava allora a essere abbattuto per far posto alle case: qui sorse l’8 dicembre 1988 la parrocchia Madre del Redentor (dall’enciclica Redemptoris Mater di san Giovanni Paolo II).
Erano appena giunti da Padova don Valentino Sguotti e don Luigi Vaccari, in sostituzione della coppia iniziale di sacerdoti in rientro. Il primo divenne parroco di Carcelen, il secondo di Carapungo (ma ciascuno era anche coparroco dell’altro). Tra settembre 1991 e gennaio 1992 arrivarono don Attilio De Battisti e don Giorgio De Checchi, quest’ultimo insieme alla prima famiglia di laici fidei donum, Alessandro Pizzati e Marta Michelotto col figlio Pietro. Rientrato don Sguotti, nell’agosto del 1994, Carcelen fu affidata a don De Battisti, mentre a Carapungo don Vaccari fu affiancato da don Francesco Fabris Talpo. Nell’ottobre nacque la parrocchia di San Luca a Carcelen Bajo, guidata da don De Checchi.
Nel 1996 iniziò, non senza difficoltà, il passaggio di Carcelen al clero locale, ufficializzato col trasferimento di don Attilio a San Luca con don Giorgio. Il 30 maggio 1998 anche Carapungo venne lasciata da Vaccari e Fabris Talpo per costituire Maria Estrella de la evangelizacion (Luz y Vida). Purtroppo neanche un mese dopo, il 18 giugno, don Vaccari moriva in un incidente stradale, privando il gruppo padovano di uno dei suoi pilastri.
In questi primi 15 anni di missione a Quito (l’ultimo sacerdote se ne andrà nel 2016) preti e laici padovani vissero un capitolo esaltante e difficile: «Nelle zone in cui eravamo chiamati a “fare Chiesa” – commenta don De Battisti – la città si espandeva a velocità vertiginose: sorsero dal niente case per 200 mila persone. Ritardare anche di poco la fondazione delle nuove parrocchie voleva dire non essere presenti nelle problematiche di fondazione delle comunità. E non erano problemi lievi, perché già c’erano stati omicidi per questioni di confine. Essere lì come Chiesa dall’inizio significava concorrere a porre le basi della convivenza civile e religiosa. D’altra parte le famiglie giunte dal campo, dalla costa, dalla selva erano la parte più dinamica della società ecuadoriana, la più attiva e desiderosa di cambiamento, economico, sociale, ma anche del modo di vivere la fede. Le iniziative pastorali, sociali, culturali erano risposta a tale coraggio».