Terra terra… I nostri alberi, tra malattie e stupidità umana
La Xylella dell’ulivo. Il cinipide galligeno del castagno. La grafiosi dell’olmo. Il Ceratocystis fimbriat o cancro colorato del platano. L’antracnosi dell’ippocastano. Il Rhynchophorus ferrugineus o punteruolo rosso delle palme. E per ultima la non meno pericolosa “stupidità umana”.
Queste sono le ultime patologie, in ordine di emergenza, di cui soffrono le piante più comuni
La lista però è davvero infinita e preoccupante. Spiazzante per certi versi, se poi si considerano le più disparate modalità d’intervento che spesso acuiscono piuttosto che contenere il problema.
Patologie vegetali che spesso vanno al di là delle nostre preoccupazioni, se non quando si convertono in perdita economica. A quel punto si scatena l’inferno per salvare o eradicare, piante millenarie.
È il caso della Xylella degli ulivi del Salento pugliese, che potrebbe drammaticamente cambiare il profilo di molti paesaggi italiani.
La questione è contingente, con il sospetto (anche fondato) che di fondo vi sia l’interesse delle multinazionali dell’olio e dei prodotti fitochimici che da questa emergenza potrebbero trarre benefici di guadagno.
«A pensare male – diceva il nostro vecchio nazionale – si finisce che s’indovina», ma è un segreto di pulcinella immaginare quanti e quali siano i proventi di certi commerci, giusto quando le cose vanno male per taluni, come i piccoli produttori.
È una legge naturale quella del pesce grosso che mangia il pesce piccolo, ma il fondato sospetto è che siamo di fronte a una guerra agro-culturale da cui l’Expo di Milano se ne starà di certo alla larga per non sporcarsi la già intorpidita immagine.
Tra le patologie ho citato “la stupidità umana”
Lo dico scientemente, stando alle pietose immagini che quotidianamente assisto osservando la potatura barbara dei nostri alberi più comuni, dai giardini alle coltivazioni.
Così, ai danni che provocano i patogeni agli alberi, dovremmo ascrivere quelli del nostro comportamento scevro ormai di qualsiasi forma di conoscenza, esperienza e saggezza. In altre parole: tradizione. Di quella atavica esperienza che vedeva nelle potature un’arte da tramandare. Del tagliare oggi per vedere crescere meglio domani. Delle forme utili, piuttosto che estetiche.
Quello a cui invece assistiamo oggi è uno scempio cui ci siamo abituati, con alberi capitozzati simili più a sculture che forme naturali. Piante slanciate costrette a trasformarsi in arbusti. Colossi secolari ridotti a nudi pali verticali.
Non c’è giardino che oggi non sia in preda ai barbari moderni del verde. Che non veda l’intervento di giardinieri privi di scrupoli, capaci di trasformare un cedro Atlantica in un pino marittimo. Una grossa quercia in un alberello topiario alla francese. Per non parlare degli ultimi platani stradali di mussoliniana memoria che sopravvivono alle motoseghe, veicolo di contagio tra pianta e pianta.
Quanto ci manca la cultura degli alberi
Solo oggi chiedevo a un vecchio potatore venuto per il mio frutteto biologico, da chi andrò quando lui non ci sarà più?
La risposta fu una scrollata di spalle: «Nessuno più farà questo mestiere – mi dice – anche perché oggi nei frutteti si piantano varietà di piante sempre più sofisticate che richiedono il minimo d’interventi. Vagli a dire poi a un giovane d’imparare a potare…».
Tutto quindi è destinato a mutare per sempre
Ci mancano già i vecchi insegnanti del verde, non sia mai che un giorno mancheranno anche gli alberi che ci sostentano. Ci penseranno quindi le multinazionali a rispondere ai nostri bisogni?