Quanta preziosa saggezza, c’è in un’erba di campo
“Ze tempo de pisacan, rosoe, rampusoi e tanoni!”. Esclamazione popolare a primavera, quando oltre alle rondini (chi le vede più oggi!) germogliano le erbette selvatiche in campi e boschi. Radici, foglie e germogli, finiscono ieri come oggi col divenire ingredienti della cucina povera, ma ricca di sapori.
Orde di donne con cesti e sacchetti si vedevano allora piegate lungo le carreggiate di campagna, nei vignali, come nelle ferrovie.
Non c’era luogo dove non spuntasse qualcosa di buono, da mettere sul piatto di casa.
Se per Thoreau l’andar per boschi significava «succhiare il midollo della vita», per le nonne significava in molti casi sopravvivenza. La natura offriva e l’uomo raccoglieva. Gesto naturale e spontaneo per intere generazioni, il raccogliere e conoscere ciò che era edibile o velenoso.
La cosa certa è che il “buono” che finiva in pentola, allora era altrettanto naturale.
Concetto che non possiamo dire a chi oggi, ai primi tepori, esce a cercare erbette selvatiche vicino casa.
Il perché è presto dimostrato: chi raccoglie lungo i cigli stradali o corsi d’acqua, ha a che fare con gli inquinanti di macchine e industrie. Se va per campi, troverà pesticidi e concimi chimici sparsi nel terreno. Ci si sposta in un vigneto ed è bene sapere che quel tappeto erboso, in realtà è avvelenato da prodotti di sintesi (tanti) impiegati per le vigne tutto l’anno. Inquinanti che non alterano affatto il sapore di ciò finisce nelle nostre pentole.
L’inquinamento spesso non ha sapore o colore, ma è letale.
Meglio quindi fare qualche passo in più e cercare spazi il più possibile lontani dalle colture, se volete mangiare davvero erbe salutari.
Sono lontani i tempi del mangiare sano perché colto dal campo.
Oggi è bene porre attenzione al luogo in cui si va a raccogliere. Lo stesso dicasi per i funghi (che sono dei fissatori di metalli pesanti), quando si vedono famelici raccoglitori di chiodini, pioppini e sbrize, mettere nel loro cestello funghi e metalli, raccolti in prossimità di strade trafficate.
L’ultimo aspetto curioso, riguarda poi la conoscenza. Quanti di voi sanno riconoscere la differenza tra una rosoea e un rampusoeo? Un pisacan e un brusco? Pochi, credetemi.
Allora i bambini seguivano nonne e mamme nelle faccende quotidiane, compreso l’andar per campi: e qui «imparavano, cose che mai nessun maestro ti dirà», per citare san Bernardo da Chiaravalle. Era la scuola della pratica, indispensabile a formarli nella conoscenza e sopravvivenza stessa.
Oggi, qualche erbetta la troviamo a malapena, pagata a peso d’oro, al mercato. I menù dei ristoranti poi hanno trasformato piatti semplici in portate da signori.
Ma chi c’è dietro? Chi continua a procurare questa materia prima? Quasi sempre, sono delle vecchie signore o signori, ieri figli e oggi nonni. Gente semplice che le erbe le ha sempre raccolte e mangiate. Ma sono soli, senza nessuno cui tramandare le empiriche conoscenze. Scomparsi loro, chi andrà più per campi? Chi riconoscerà un’erba da un’altra?
Che bello sarebbe allora consigliare alle insegnanti di organizzare una lezione di “botanica pratica e spontanea” portando gli alunni al seguito di qualche raccoglitrice che va per i campi.
Diventerebbe un’esperienza da uomini primitivi, come una lezione didattica di antropologia e botanica. Ma così non è! Non stupitevi quindi, se a un ragazzo parlandogli di pisacan o rosea questo vi risponde: «Parliamo di un programma o una app?»