La Mafia in Veneto c’è. Basta saper guardare
Un convegno del Siap ha fatto il punto sulle infiltrazioni della malavita nel territorio regionale. Tanto più pericolose perché oggi non serve più il controllo militare del territorio, né tantomeno pagano le azioni eclatanti: più utile infiltrarsi nell’economia con la propria forza economica. Ecco perché c'è bisogna di una nuova attenzione ai reati “spia”, dalle turbative d’asta alle truffe ai fallimenti societari, per poter risalire alle associazioni di tipo mafioso.
Cristina Pavesi, studentessa universitaria di Padova, originaria di Conegliano, morta il 13 dicembre 1990 a causa dell’esplosione di un convoglio ferroviario durante un tentativo di rapina da parte della Mafia del Brenta.
Loris Giazzon, agente di polizia, ucciso il 20 aprile 1993 a Olmo di Creazzo durante una rapina a una banca.
Antonio Lippiello, sovrintendente della polizia, morto il 7 gennaio 2000 in un inseguimento sulla tangenziale di Mestre.
Matteo Toffanin, di Ponte San Nicolò, ucciso a colpi di fucile il 3 maggio 1992, a 22 anni, nel quartiere Guizza di Padova, per uno scambio di persona.
Sono le vittime che Marco Lombardo, coordinatore di Libera, ha voluto ricordare nel suo intervento durante il convegno “Evoluzione mafiosa in Veneto dalla mafia del Brenta ad oggi”, organizzato dal Siap, Sindacato italiano appartenenti polizia.
Vite spezzate da una mafia camaleontica che, col passare degli anni, ha cambiato pelle insidiandosi nelle attività produttive del Veneto: «È necessario trovare un punto di equilibrio tra il negazionismo e l’eccesso di allarmismo, evitando accuratamente generalizzazioni – spiega Cristiano Cafini, segretario regionale Siap – Ci sono presenze di Cosa nostra radicate, gruppi camorristici casertani, ‘ndranghetisti a Padova, nel Veronese, nel Vicentino e non manca nemmeno la Sacra corona unita».
Estorsione, usura, sodalizi per il riciclaggio e il reinvestimento di capitali illegali con l’acquisizione di attività imprenditoriali e commerciali, disponibilità di liquidità per sostituire il legale sistema di credito, ma anche il controllo del traffico di stupefacenti che, come erroneamente crede l’opinione comune, non è esclusivamente in mano a stranieri: in realtà questi ultimi gestiscono solo il dettaglio di un mercato controllato da criminali italiani.
Sono le nuove armi della mafia, che ha deposto esplosivi e pistole tenendosi lontana dal gesto eclatante e roboante
«Non esiste un controllo militare della mafia nel Veneto – sottolinea l’onorevole Alessandro Naccarato – ma oramai non è più presente in nessun altra regione se non in quelle di insediamento tradizionale e Mafia capitale ne è un esempio. Hanno adottato un’innovazione strategica, per questo è necessario partire dai reati “spia” come le turbativa d’asta, le truffe o i reati fallimentari che vanno monitorati in maniera certosina per poter risalire, potenzialmente, al reato madre, quello di associazione di tipo mafioso».
Durante il convegno, nel quale sono intervenuti anche il questore Gianfranco Bernabei, Carlo Pieroni, capocentro Dia di Padova, Antonio Parbonetti, docente di economia aziendale, Sergio Gelain, vicepresidente della Camera di commercio di Padova, Enzo Delle Cave, segretario nazionale Siap, Luigi Ometto, presidente Ance Padova, Ugo Dinello, giornalista e coautore del libro Mafia a Nord Est e Riccardo Fantin di Avviso pubblico, gli ospiti hanno ricostruito l’evoluzione che ha portato la mafia a radicalizzarsi al nord.
Nei primi anni ’90, dopo la stagione stragista e l’azione repressiva straordinaria messa in atto dallo stato, le attività criminali si sono mosse cambiando territori e metodi operativi, trovando in Veneto la “longa manus” della mala del Brenta per affermare il proprio dominio oscuro.
«La mafia non si dissocia dalla parola corruzione – è l’analisi del prefetto Renato Franceschelli – Se in tessuti economici simili a quelli di Padova come il Trevigiano o il Veronese sono state disposte interdittive antimafia, allora siamo possibili destinatari di attività illecite. Dobbiamo rinforzare gli anticorpi: come forze di polizia, come amministrazione, come scuole e soprattutto come società civile».
D'altronde la mafia economica, quella che attanaglia gli imprenditori, non danneggia solo le aziende direttamente coinvolte o minacciate, ma strangola tutte le realtà sane del medesimo territorio.
A confermarlo è anche la corposa e profonda analisi condotta sulle attività criminali nel Centro e Nord Italia realizzata da Antonio Parbonetti, docente di economia aziendale all’università di Padova, con Michele Fabrizi, assegnista di ricerca, e la dottoranda Patrizia Malaspina.
La ricerca è partita prendendo in considerazione tutte operazioni e le sentenze almeno di primo grado emesse dal 2005 al 2014 per reati riconducibili al 416bis, per un totale di 120.
Dopo aver recuperato i nomi dei condannati, si è risaliti alle aziende e ai loro bilanci: dal quadro emerge che le imprese criminali non sono presenti solo nell’edilizia o in campo immobiliare, ma sono ramificate in diversi settori produttivi.
Aziende molto più grandi di quelle sane, che creano una realtà altamente distorta: di fatto, quando viene sradicata un’attività mafiosa nel territorio, quelle che competono nello stesso settore hanno un incremento, immediato, della perfomance del 20 per cento. Aumenta anche il costo del lavoro, si riducono i costi delle materie prime e si migliora l’efficienza complessiva. Si assumono più persone e si fanno investimenti, ma non solo: arrivano aziende nuove pronte a entrare nel mercato.
Lo studio ha, inoltre, classificato tre tipi di realtà aziendali criminose che cooperano assieme
Ci sono le società di supporto che hanno ricavi pari a zero e servono d’appoggio alle organizzazioni criminali per intestare telefoni, automobili e per garantire sostegno logistico senza lasciare traccia. Nella piramide, seguono poi le aziende cartiere che fabbricano fatture false per riciclare denaro o creare fondi neri.
Infine, ci sono le aziende star, le più pericolose: particolarmente grandi, sono apparentemente sane, ben visibili e servono per diffondere il germe criminale nelle arterie politiche e sociali di un territorio.