Migranti. Riaprire i Cie? «Non garantiscono sicurezza e dignità»
La circolare del capo della Polizia e la vicenda di Cona hanno riaperto il dibattito sui centri di grandi dimensioni. Arci: «Un’accoglienza giusta è possibile solo nei centri piccoli». Don Colmegna: «Sono luoghi di sostanziale detenzione». Centro Astalli: «Serve rete diffusa su tutto il territorio nazionale».
Due vicende hanno riaperto prepotentemente la discussione sull’accoglienza dei migranti, sulla qualità di questa accoglienza, sulle strutture adibite ad ospitarli. La prima occasione è stata offerta dalla circolare del capo della Polizia Gabrielli, che sollecita le forze dell'ordine a intensificare i controlli sui migranti irregolari (a cui è seguito l'intervento del neo ministro dell'Interno Marco Minniti, che ha annunciato il progetto di riaprire un Cie in ogni regione e di aumentare le espulsioni). La seconda occasione è stata data da ciò che è successo a Cona (Venezia), dove la morte di una giovane ivoriana di 25 anni, Sandrine Bakayoko, ha scatenato la rivolta dei migranti presenti nel grande centro di accoglienza (1.300 ospiti), con grave pericolo per gli operatori. E conseguenti polemiche e reazioni della politica.
E l’associazionismo? Cosa ne pensano coloro che dell’accoglienza e dei diritti si occupano quotidianamente? La sintesi è chiara:
la rivolta che è scoppiata al centro di prima accoglienza di Cona e la proposta di questi giorni di aprire i Cie in ogni città sono segnali che destano grave preoccupazione.
Arci: «Non si può fare assistenza nei grandi centri di accoglienza».
L’associazione ricorda come da anni denunci «la politica dell’accoglienza in grandi centri che sono come il caso dei Cara dimostra luoghi ad impatto negativo sul territorio, che alimentano il razzismo e dove i diritti dei migranti non vengono rispettati. Un’accoglienza giusta è possibile solo nei centri piccoli, a misura di persona, dove favorendo l’autonomia e la responsabilità degli ospiti fin dall’arrivo, si possono sviluppare dei reali progetti d’integrazione e di relazione positiva con il territorio. Al contrario, nei centri con grandi capacità d’accoglienza le persone diventano numeri, i problemi si moltiplicano senza che possa essere trovata una risposta adeguata per l’impossibilità di fornire una reale assistenza». Per l'Arci, allora, la sola soluzione è la chiusura immediata di questi centri e che il sistema di accoglienza straordinaria delle prefetture sia trasferito nella rete Sprar. «Serve inoltre un registro nazionale dei soggetti che fanno accoglienza e tutela in maniera competente e monitorata».
Il Centro Astalli: «Segnali preoccupanti, cambiare politica».
Da parte sua il Centro Astalli ribadisce la «necessità di ripensare e riformare il sistema di immigrazione e asilo in Italia. In particolare va ribadito che è ampiamente dimostrato che privilegiare l’uso di centri con numeri elevati di migranti non è mai una buona soluzione». Per l'associazione
«la fase di emergenza deve durare pochissimo e va supportata da una buona organizzazione della rete di accoglienza per piccoli numeri, diffusa sul tutto il territorio nazionale, restituendo così dignità ai migranti accolti e agli operatori che li assistono».
«È fondamentale il coinvolgimento dei comuni – sottolinea padre Camillo Ripamonti, presidente Centro Astalli – Basterebbe che ognuno accolga poche decine di migranti in maniera progettuale e inclusiva. Questa è la strada da seguire per evitare situazioni di tensione e di ingovernabilità di un fenomeno che viene raccontato sempre più spesso con toni allarmistici ed emergenziali».
«I Cie non sono lo strumento per garantire maggior sicurezza».
Don Virginio Colmegna, presidente della Fondazione Casa della carità di Milano, commenta la proposta di riaprire i Centri di Identificazione ed Espulsione e di attivarne uno in ogni regione italiana. E afferma:
«I Cie si sono dimostrati strumenti inutili a contrastare l'illegalità, come comprovato a suo tempo dalla Commissione De Mistura. Ma, cosa più importante, sono stati condannati per essere luoghi di sostanziale detenzione, dove alle persone ospiti non erano garantiti né i diritti né la dignità umane, fondamentali per rispondere alla domanda di coesione sociale».
«La sicurezza di tutti può essere invece ottenuta con una buona politica di accoglienza e, di pari passo, con un lavoro per una reale inclusione di chi arriva in Italia – conclude – favorendo percorsi di autonomia lavorativa e abitativa, promuovendo i diritti e coinvolgendo le comunità straniere che già sono presenti in Italia».
Asgi: «Per aumentare le espulsioni si diventa poco rispettosi dei diritti».
Livio Neri, avvocato e membro dell'Associazione studi giudici sull'immigrazione, è preoccupato per come verrà applicata la circolare del capo della Polizia Gabrielli. «Il rischio è che per aumentare il numero delle espulsioni si sia poco rispettosi dei diritti – sottolinea – Certo le regole vanno rispettate e l'irregolarità non può essere accettata. Ma non esiste un automatismo tra mancanza del permesso di soggiorno ed espulsione». L'altro fattore di preoccupazione è che la programmazione dei controlli è affidata ai Comitati provinciali per l'Ordine e la sicurezza pubblica, di cui fanno parte anche i sindaci dei capoluoghi. «Non vorrei che in questo modo gli interventi siano troppo legati alle esigenze dei politici di turno…», precisa.
Riapertura dei Cie e questione umanitaria. Luigi Maraghini Garrone è il presidente della Croce rossa italiana di Milano, ente impegnato nell'accoglienza dei profughi, nell'assistenza dei senza dimora e, in passato, nella gestione del Cie di via Corelli. Afferma: «Ogni migrante, anche chi è irregolare, finché rimane sul nostro territorio ha diritto ad essere integrato nella società civile. Non vedo perché non debba poter vivere dignitosamente, frequentare corsi di italiano o seguire altri percorsi di formazione. Ne troverebbero giovamento sia lui che la società italiana. Certo poi bisogna trovare il modo di farlo rimpatriare». E qui il sistema dei Cie ha già dimostrato di essere fallimentare. «Senza accordi con i Paesi d'origine non è possibile rimpatriarli – conclude – Già ai tempi del Cie di via Corelli c'era questo problema, tanto che il numero dei rimpatriati era molto basso rispetto a chi era detenuto nella struttura. L'apertura di strutture di detenzione non garantisce quindi il risultato».