Famiglie in crisi, le badanti tornano a lavorare in nero
Fissati gli stipendi 2016, che si mantengono sui valori degli scorsi anni. Ma nonostante questo, calano le iscrizioni all’Inps e cresce il lavoro nero. L'analisi di Clorinda Turri (Acli Colf): "Badanti lasciate sole, mancano reti di famiglia e di assistenza". In aumento anche il via vai tra Italia e Paesi dell'est di donne che, finito un lavoro, non riescono a trovarne un altro.
“Più che di evoluzione, parlerei di involuzione. È in questa direzione che si sta andando”.
Clorinda Turri, segretaria provinciale Acli Colf della provincia di Verona e membro del direttivo nazionale, non ha dubbi: il mondo colf-badanti non sta vivendo un buon periodo. Colpa della crisi, certo, ma anche di una forte carenza di buona volontà da parte di alcune istituzioni.
Aumento del lavoro in nero.
“Le iscrizioni all’Inps negli ultimi anni sono calate di 4/5 punti percentuali. Questo non vuol dire che ci siano meno richieste di cura, ma che si è sviluppato molto più lavoro nero”, riassume.
Quello che Turri registra dal suo punto d’osservazione veneto è un gran via vai tra l’Italia e i Paesi dell’est di donne che fanno avanti e indietro: “Finito un lavoro, spesso non riescono a trovarne un altro immediatamente, così scelgono di rientrare a casa per un po’, prima di tornare alla ricerca di un nuovo impiego. Questo, naturalmente, non favorisce rapporti di lavoro duraturi. Succede soprattutto con le donne dell’est, meno con quelle di origine sudamericana, per ovvie ragioni geografiche. Perché sempre e soprattutto di donne si tratta, comunque”.
Nord, Centro e Sud Italia.
“Come detto, la crisi si sente anche nel lavoro di cura, anche se i salari stanno nelle medie, ma con molti punti interrogativi”.
Innanzitutto, spiega Turri, c’è un’enorme diversità tra gli stipendi nel Nord, nel Centro e nel Sud. Perché se nell’Italia settentrionale, pur con qualche criticità, si rispettano le regole, al sud una badante coabitante è retribuita anche 400 euro: “O è lavoro in nero o è per colpa del nero: la malsana concorrenza fa abbassare drasticamente gli stipendi”.
Risparmiare sui contributi.
“Ma ci sono criticità, come ho anticipato, comuni a tutti. È evidente la propensione dei datori di lavoro a risparmiare sui contributi”. Da contratto, infatti, un’assistente familiare coabitante deve essere assicurata per 54 ore. I datori, invece, tendono ad assicurare per 25/30 ore, attraverso accordi particolari: “Non mancano le agenzie che permettono queste scelte. Ovviamente, la lavoratrice accetta. Io, retoricamente, chiedo: “Perché lo fai? Se accetti queste condizioni poi sei difficile da tutelare”. Mi risponde che non ha scelta, deve lavorare per mantenere la famiglia”.
Questa dinamica, spiega, non fa che aumentare la conflittualità, che non può tradursi in buone condizioni: “Senza dimenticare che anche le famiglie hanno bilanci sempre più ristretti. È tutto uno sfruttamento vicendevole”.
La solitudine delle assistenti.
Così, molte volte a farne le spese sono gli assistiti, anche con gravi patologie: “Nella maggior parte di casi la lavoratrice si ritrova tutto il peso sulle spalle. Le reti familiari spesso non ci sono, e quando ci sono talvolta danno più problemi di quanto non faccia l’assistito”.
La denuncia di Turri è chiara: equipe di professionisti idonee ad occuparsi degli assistiti da un punto di vista medico non ce ne sono (o ce ne sono troppo poche, come i centri per il sollievo o le associazioni che si occupano di Alzheimer), e mancano anche reti di supporto alla famiglia e alla lavoratrice: “Bisognerebbe chiamare in causa il welfare sociale, come io, nel mio piccolo, a Verona, cerco di fare, ma dipende dalle legislazioni regionali, che sul tema possono essere più o meno sensibili”.
Una professionalità negata.
Negli ultimi anni, spiega Turri, è anche aumentata molto la professionalità di chi fa questo lavoro. Sommando esperienza a esperienza, queste donne hanno sviluppato una competenza. “Ma è una professionalità non riconosciuta. A maggior ragione che molte di loro svolgono attività sanitarie che nemmeno dovrebbero fare. Altre, invece, sono già infermiere nel loro Paese d’origine, ma il titolo non è riconosciuto in Italia. Tutto questo è sbagliato: le istituzioni devono fa sì che le assistenti siano preparate e tutelate, riconoscendo loro le competenze di cui sono in possesso”.
Le lavoratrici domestiche e le donne italiane.
Secondo il rapporto di Soleterre e IRS, l’Istituto per la Ricerca sociale, nel nostro Paese si stimano oltre 830 mila badanti. Ma potrebbero essere molte di più, perché sono esclusi dal computo “i lavoratori impiegati irregolarmente e alcuni dei lavoratori classificati come colf, che possono in realtà svolgere anche attività di cura e assistenza alle persone anziane”. “Esattamente – conferma Turri – c’è chi è inquadrata come lavoratrice domestica ma fa molto di più”.
Da qualche anno, poi, si assiste al ritorno nel campo delle cure delle donne italiane. Un altro effetto della crisi. “Si tratta soprattutto di donne uscite dal settore del commercio che, per ripiego, sono entrate in quello della cura”.
Anche gli stipendi restano fermi
Pochi giorni fa, intanto, sono state pubblicate le retribuzioni minime e le indennità di vitto e alloggio dei lavoratoti domestici valide per il 2016, che si mantengono sui valori degli ultimi anni: “Già. Le retribuzioni non aumentano, al contrario del costo della vita. Anche per questo parlo di involuzione”.