Un anno con Trump: provvedimenti contrastanti e lo spettro impeachment
In campagna elettorale Donald Trump era riuscito a guadagnarsi il favore degli elettori promettendo di “rifare grande” il proprio Paese. Una volta insediatosi alla Casa Bianca, ha proseguito su quella via, fatta di un misto di autosufficienza isolazionistica, depotenziamento delle organizzazioni internazionali e perseguimento esclusivo degli interessi nazionali.
Da qui la denuncia dell’inefficienza di istituzioni come l’Onu e le accuse agli alleati europei di non contribuire in maniera adeguata al finanziamento della Nato, giudicata obsoleta, non al passo con i mutamenti strategici e geo-politici in atto su scala mondiale.
I soggetti con cui confrontarsi direttamente, per il presidente Trump, sono invece Cina e Russia, con cui ricercare un’intesa la più ampia possibile.
Nei nuovi scenari da lui immaginati, l’Unione Europea è destinata all’irrilevanza: meglio dunque dialogare con i singoli stati, in particolare il Regno Unito, di cui ha particolarmente apprezzato la svolta storica della Brexit. Il quadro generale del nuovo presidente americano ruota attorno all’idea che sia giunto il momento in cui gli Stati Uniti devono difendersi dalle gravi minacce esterne alla loro sicurezza, sul piano economico-commerciale, politico, culturale e militare-terroristico.
Alla fine del suo primo anno di mandato, vanno dunque lette in quest’ottica le principali iniziative di politica interna ed estera, come il bando che pone stretti limiti agli ingressi negli Stati Uniti di cittadini di Paesi musulmani considerati ad alto rischio terrorismo, a cui si aggiungono quelli di Venezuela e Corea del Nord.
La proiezione esterna della difesa della sicurezza nazionale ha i suoi capisaldi in Medio Oriente e Corea del Nord. Trump ha già chiaramente invertito la politica di Obama nei confronti dell’Iran e degli equilibri con il mondo arabo sunnita. L’accordo sul nucleare iraniano è stato denunciato come un atto ingenuo e pericoloso che aprirebbe spazi enormi alla politica di riarmo del regime di Teheran, compromettendo ulteriormente la stabilità della regione.
È stata di conseguenza ribadita con forza la storica vicinanza degli Stati Uniti all’intera galassia musulmana sunnita, dall’Egitto all’Arabia Saudita, nell’ottica di una nuova grande alleanza, che coinvolge anche Israele, contro le mire espansionistiche degli sciiti iraniani.
Qui si possono notare le prime increspature e incoerenze nella linea politica della nuova amministrazione, che dimentica innanzitutto la minaccia costituita dallo Stato Islamico, finanziato e sostenuto dai sunniti e combattuto dagli sciiti. Inoltre, il riconoscimento implicito di Gerusalemme quale capitale unica di Israele, avvenuto con la decisione di spostare l’ambasciata da Tel Aviv, potrebbe rendere più difficile le aperture dell’Arabia Saudita ad Israele.
Insomma se Trump in un primo momento si era sbilanciato per orientare contro il comune nemico iraniano le forze di tutti i suoi alleati mediorientali, subito dopo ha oggettivamente creato le condizioni per aprire nuovi varchi all’Iran e ai suoi alleati, cioè il regime siriano e gli sciiti libanesi di Hezbollah.
Di questa confusione ideologica e operativa potrebbe approfittare il presidente russo Putin, che dallo scoppio della guerra civile siriana ha sempre dimostrato, all’opposto, grande coerenza e chiarezza di idee.
Sul nucleare nordcoreano, Trump finora ha mostrato di non riuscire ad oltrepassare l’inconcludenza delle minacce verbali. Il dittatore Kim Jong Un prosegue imperterrito nella sua corsa al riarmo, senza che nessuno, incluso l’alleato storico cinese, possa fare alcunché.
Di certo, il peso e la potenza degli Stati Uniti nel mondo non sono cresciuti nel primo anno di amministrazione Trump, il quale può comunque consolarsi con la crescita economica interna e l’approvazione della sua riforma fiscale, che abbassa notevolmente le imposte alle imprese e ai ceti sociali alti; sempre che le indagini sui rapporti ambigui con la Russia dei suoi consiglieri attuali e passati non arrivino a compromettere anche il residuo consenso popolare di cui sembra ancora godere. E non si giunga a quell’impeachment che potrebbe mettere fine anzitempo alla sua esperienza presidenziale.