Giorno del ricordo: un dramma che parla ancora alle coscienze
Paola Dalla Costa e Nicola Carraro, autori di un quaderno di ViviPadova sulle vicende dei confini orientali d’Italia, spiegano con quali propositi è utile ricordare la complessa questione delle foibe e dell’esodo giuliano dalmati.
10 febbraio 1947: data del trattato di Parigi che l’Italia dovette firmare, da paese nemico sconfitto, senza alcuna possibilità di negoziato. Undici anni fa su questa data è stata fondato il Giorno del ricordo «al fine di conservare – recita la legge – e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Alle vicende dei confini orientali d’Italia Paola Dalla Costa e il marito Nicola Carraro (in partenza c’era anche la sorella Carla Dalla Costa, prematuramente scomparsa) hanno dedicato due anni fa un quaderno didattico di “ViviPadova” che completava la loro trilogia dedicata alle date significative della nascita del nuovo stato italiano insieme al 25 aprile, giorno della liberazione, e al 2 giugno, nascita della repubblica e dell’assemblea costituente. A loro, che hanno studiato e rielaborato questo argomento con passione e partecipazione, pur senza esserne direttamente coinvolti, chiediamo che senso deve avere oggi, a sessant’anni da questi fatti, il “ricordo”.
«L’idea di questo quaderno – racconta Paola dalla Costa – ci è nata assistendo ai preparativi nel luglio del 2010 al concerto di musiche di Luigi Cherubini diretto a Pola dal maestro Muti a cui hanno partecipato un’orchestra e un coro italo sloveno croato e i presidenti di Italia, Slovenia e Croazia. "Con la nostra presenza – hanno dichiarato – intendiamo testimoniare la ferma volontà di far prevalere quel che oggi ci unisce su quel che ci ha dolorosamente diviso in un tormentato periodo storico, segnato da guerre tra stati ed etnie". Ecco, ci è sembrato che questo fosse l’obiettivo giusto: far capire alle nuove generazioni di futuri cittadini europei che la visione della società deve essere sempre più orientata verso l’obiettivo dell’unione dei popoli per sviluppare la collaborazione più che perpetrare odi antichi frutto di esasperati nazionalismi. Occorre che il ricordo diventi patrimonio comune della memoria storica del paese, non momento di rancori non superati ma maestra di vita».
Da questo punto di vista Padova è un luogo privilegiato del ricordo perché fin dai tempi della Repubblica veneta è stata un punto di riferimento importante per la popolazione giuliano dalmata. Basta vedere gli stemmi di studenti e professori giuliani e dalmati appesi al Bo, o i movimenti irredentisti che l’animarono cent’anni fa, quando si decise l’entrata in guerra dell’Italia proprio per “liberare Trento e Trieste”. «E proprio qui – chiarisce Nicola Carraro – comincia la nostra trattazione, dall’insediamento degli slavi nell’area giuliano-dalmata all’espansione della Serenissima fino al trattato di Campoformido che mise fine alla repubblica di San Marco. La grande guerra, passata come la quarta guerra d’indipendenza per la liberazione di Trento e Trieste, in realtà con l’armistizio di villa Giusti non scelse la via dell’autodeterminazione dei popoli. Molte comunità vengono rinchiuse entro confini che non ritengono come propri e oltretutto Trieste e la Venezia Giulia appaiono isolate dal loro naturale entroterra commerciale, con conseguente diminuzione dei traffici e delle attività economiche».
La situazione si aggravò con il fascismo, che perseguì la snazionalizzazione delle minoranze e stabilì il divieto di parlare sloveno o croato negli edifici pubblici, nelle scuole, nelle chiese. Una negazione d’identità che covò desideri di rivalsa non solo contro il regime, ma contro tutta l’italianità. Così quando, dopo l’8 settembre del 1943, lo stato italiano si dissolse ci fu una specie di resa dei conti popolare: i partigiani di Tito prendono il potere e i contadini croati si impossessano delle armi abbandonate dagli italiani e si scatenano fondendo la lotta di classe contro i padroni con la lotta nazionale contro gli italiani e la lotta politica contro il fascismo. Qui si collocano le efferatezze come quelle compiute contro Norma Cossetto e le prime vittime nelle foibe, un migliaio circa. Poi arrivarono i tedeschi, accolti come “liberatori”, fino al 30 aprile 1945 quando i partigiani jugoslavi prendono il potere mantenendolo per 40 giorni ed eliminando 10-12 mila persone, non solo fascisti ma anche antifascisti contrari all’annessione alla Jugoslavia. A giugno gli alleati si accordano sulla “linea Morgan” che divide in modo assurdo la zona A, sotto il controllo angloamericano, e la zona B, sotto quello jugoslavo. Comincia l’esodo degli italiani dai territori jugoslavi, da Zara, da Pola, da Fiume, che culminerà il 10 febbraio 1947 con il definitivo passaggio della zona B all’amministrazione militare jugoslava. L’accoglienza dei 350 mila profughi in Italia ha luci e ombre. «Tra le tante ombre – racconta ancora Nicola Carraro – di chi vede nei profughi dei privilegiati che vengono a portare via il pane, spicca l’assistenza fornita dai padovani nel campo profughi della caserma Romagnoli a Chiesanuova, che già era stato un campo di internamento di civili slavi durante il fascismo. La vita nel campo era dura ma la solidarietà la allevia e viene favorita nei giovani anche la frequenta alle scuole superiori e all’università. Nel 1951 il consiglio comunale cede alcuni terreni all’Opera assistenza ai profughi giuliani e dalmati per l’edificazione di case a riscatto».