Wim Wenders: “Il Papa, un uomo coraggioso. Un anno fa mostrò cos’è la fede: un uomo solo davanti a Dio”
Il regista Wim Wenders si racconta al Sir in occasione della messa in onda del film "Francesco. Un uomo di parola" e racconta i faccia a faccia col Papa, la libertà nel girare, la visione di Chiesa e di fede. Ne esce un ricordo colmo di stima per il Pontefice, nel suo essere prima di tutto un uomo. Dice Wenders: "Volevo ritrarre papa Francesco, non guardare all’Istituzione, di cui e della cui presunzione egli è stato, tra l’altro, uno dei più severi critici"
In occasione della prima visione assoluta del docufilm “Papa Francesco – Un uomo di parola”, questa sera alle 23.35 su Rai Uno dopo la Via Crucis, proponiamo un’intervista al regista tedesco Wim Wenders. I primi contatti con il regista sono avvenuti nel 2013 e le riprese, in quattro sedute, sono state realizzate tra il 2016 e il 2017. Il progetto è nato su iniziativa di mons. Dario Viganò, vice cancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze e della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, che ha coltivato il rapporto con Wenders, ritenuto il regista più attento e adatto a realizzare un film su e con Papa Bergoglio. Ed è stato anche in grado di reperire le adeguate coperture economiche grazie all’incontro con i produttori Andrea Gambetta, Alessandro Lo Monaco e Samanta Gandolfi Branca, condividendo con Wenders l’idea che il film non dovesse essere costoso ma in linea con la sobrietà che caratterizza lo stile di vita e il messaggio per il mondo.
Le immagini di papa Francesco che, solo, in piazza San Pietro, impartisce la sua benedizione Urbi et Orbi sono stati uno dei simboli visivi più potenti della pandemia globale del 2020. Come legge lei oggi quelle immagini? E, da un punto di vista più personale, che tipo di luce proiettano sul suo film “Un uomo di parola” e sulla sua intima esperienza vissuta a contatto col Papa?
Mi ritenni fortunato perché un amico italiano mi chiamò quel giorno e mi disse: “Accendi la tv! Il Papa sarà in diretta da Piazza San Pietro”. E così guardai tutta la benedizione in diretta, in tempo reale, incluso l’intero discorso del Papa. Sentii che quello era un momento profondamente commovente e che
papa Francesco aveva mostrato a tutti noi cosa significasse la pandemia,
non solo nei termini delle immagini a noi note – strade, negozi, stadi, città deserte – ma anchequale potente immagine del deserto spirituale in cui il mondo si era trasformato.
E questo riecheggiò nelle parole del Papa quando disse che la pandemia potrebbe anche essere vista come la reazione del Pianeta Terra all’incessante sfruttamento e distruzione cui è stato sottoposto.
Ritengo papa Francesco un uomo coraggioso.
Ciò era emerso chiaramente nelle nostre lunghe conversazioni, in cui non evitò di affrontare alcuna questione e, anzi, si aprì spontaneamente e in modo diretto a tutte le domande.
Inoltre, penso che abbia sempre reagito intrepidamente a qualunque opposizione – e di opposizioni ne ha avute (e tuttora ha) molte all’interno della Chiesa. Ma essere lì, in piedi, da solo in piazza San Pietro richiese un tipo diverso di coraggio.
Mi mostrò, più di qualunque altra cosa avessi mai visto, cos’è la “fede”. Un uomo (o una donna) solo davanti a Dio.
Tu non potresti mai essere più solo di quanto lo sia stato Francesco quel giorno nella pioggia di piazza San Pietro. Quello fu un gesto forte e coraggioso, che rispecchia alla perfezione l’uomo che avevo conosciuto.
Nella sua opera di regista quella col Papa è stata un’esperienza cinematografica diversa da qualsiasi film avesse girato fino ad allora. Guardando a ritroso fino ai suoi esordi, come colloca oggi questo film nel quadro della sua produzione e dei temi cardine della sua poetica?
(Ride) Mi permetta di dissentire! Credo fermamente che “Un uomo di parola” sia in linea con gli altri miei film e che abbia anche una dimensione poetica grazie, ad esempio, alla ricostruzione “storica” di San Francesco.
Anche “Il cielo sopra Berlino” o “L’anima di un uomo” hanno degli aspetti spirituali o “trascendentali”.
Non sono dovuto diventare “un altro regista” per realizzare questo film con papa Francesco. Sono rimasto lo stesso, e tutte le mie opinioni, il mio approccio, il mio modo di pensare e senz’altro la mia “arte” sono presenti in questo film proprio come negli altri.
Nell’ambito del ministero petrino oggi riveste un ruolo sempre più importante quello che potremmo definire il “magistero audiovisivo” del Pontefice. Questo film le è stato commissionato dalla Santa Sede che poi però le ha lasciato piena libertà nella sua realizzazione. Qual è, secondo il suo punto di vista, il senso di questa operazione nell’ambito del “magistero audiovisivo” di papa Francesco?
Papa Francesco ha una concezione molto chiara e attuale del ruolo delle “immagini” e della “comunicazione” nel mondo odierno.
Non mi stupì affatto che avesse considerato di includere un film nella sua opera di comunicazione. I “film” sono uno strumento ben più significativo di un documentario televisivo. Le persone sanno che un diverso tipo di tempo è stato investito nella produzione di un film cinematografico e che da esso possono aspettarsi un’esperienza più consolidata e anche una più profonda devozione alla “verità”. Devo anche dire che ho apprezzato molto che il Papa avesse dato per scontato che un film del genere richiedesse la piena autorità e il montaggio finale del suo autore, e che questo non abbia mai costituito un problema.
Raramente ho girato un film con maggiore libertà.
Quella del film “Un uomo di parola” non è stata in realtà la sua prima esperienza con papa Francesco, avendo lei svolto il ruolo di consulente artistico per la diretta televisiva dell’apertura della Porta Santa dell’8 dicembre 2015 per il Giubileo straordinario della Misericordia. In quale relazione stanno le due esperienze?
In riferimento al Giubileo, ciò che richiamò fortemente la mia attenzione fu l’atto simbolico “dell’apertura delle porte del Vaticano”. Sentii di aver bisogno di questa inquadratura per il mio film e così presi parte alla complessa regia di Stefano d’Agostini di questo evento in diretta televisiva, cercando di assicurarmi che una delle sue telecamere riprendesse l’apertura della porta dall’inizio alla fine. Per intenderci, ero responsabile soltanto di questa telecamera. Ero presente alle riprese in diretta e rimasi molto colpito dalla loro precisione e accuratezza. Il mio ruolo di “consulente” è stato perciò molto limitato e tutto il merito per queste riprese va a Stefano d’Agostini.
Nel film ci sono alcuni elementi tecnici e di linguaggio particolarmente significativi. Il primo è l’utilizzo dell’Interrotron che ha permesso il dialogo “faccia a faccia” col Papa. Il secondo è rappresentato dalle sequenze di finzione su san Francesco girate ad Assisi, poi inserite nel film in bianco e nero. Può spiegare nel dettaglio il senso di queste scelte?
Sin dall’inizio pensai che sarebbe stato un enorme privilegio avere a disposizione tutto quel tempo faccia a faccia con papa Francesco.
Mi resi conto che milioni e milioni di persone mi avrebbero invidiato e avrebbero dato qualunque cosa pur di essere al mio posto, a quattr’occhi con il Papa.
Questo mi fece riflettere e ben presto capii che anziché appropriarmi di questo privilegio, avrei di gran lunga preferito rinunciarvi a favore di tutti coloro che avrebbero visto il film. E così, dopo aver riflettuto a fondo, trovai la soluzione: l’Interrotron. In questo modo, il Papa mi avrebbe visto su uno schermo ed io non lo avrei guardato negli occhi, bensì attraverso una telecamera, ma almeno così sarebbe stato faccia a faccia con ciascuno spettatore! Questo avrebbe fatto una così gran differenza per la loro esperienza dal punto di vista visivo ed emozionale! Papa Francesco capì velocemente come avrebbe funzionato e fu subito d’accordo. Sì, è vero, ho dovuto rinunciare al mio “privilegio”, ma solo per poter realizzare un film migliore. Quale regista non opterebbe per quest’alternativa?!
Per quanto riguarda le scene in bianco e nero con San Francesco, sin dall’inizio ho avuto l’impressione che
la chiave per capire questo papato fosse sicuramente nella scelta del nome “Francesco”.
Jorge Mario Bergoglio è stato in assoluto il primo Papa a scegliere il nome di questo grande riformatore della Cristianità, il primo “ecologista” nella storia della Chiesa e, forse, dell’umanità; il primo a incoraggiare veramente la pace fra le diverse religioni nel mondo e a sollecitare un’eguaglianza radicale fra tutti gli esseri viventi, non solo fra uomini e donne o ricchi e poveri, ma anche animali, alberi e la natura in generale.Capii che avrei potuto far percepire l’importanza di questo omonimo agli spettatori contemporanei solo facendo vedere san Francesco ed in tal modo rendendo loro intellegibile il suo messaggio.Tuttavia, dopo aver esaminato tutti i vari film sulla vita del santo realizzati nella storia del cinema, mi resi conto che nessuno di essi avrebbe davvero potuto fare ciò in modo conciso, semplice e credibile. Così decisi di girare personalmente alcuni istanti della vita del santo – cosa che è stata più facile a dirsi che a farsi. Come si fa a girare delle ricostruzioni storiche del tredicesimo secolo se non si hanno i mezzi per farlo? Il nostro film non aveva un grosso budget, al contrario, era nella tradizione del “cinema povero”.Non si può certo realizzare un film costoso su un uomo che predica che dovremmo cavarcela con meno risorse e che in prima persona vive secondo questo precetto!
E così finimmo col girare le scene della vita di San Francesco nell’Assisi dei giorni nostri e nei suoi dintorni, senza lo sforzo di doverla trasformare in una città italiana del tredicesimo secolo. Abbiamo semplicemente girato le scene in bianco e nero, con una vecchia cinepresa a manovella, un originale degli anni Venti, l’epoca del cinema muto. Quella cinepresa ha saputo incredibilmente trasformare tutto ciò che veniva inquadrato in qualcosa di appartenente al passato e ha fatto sì che il mondo sembrasse “d’altri tempi”.
Le vedute animate di papa Leone XIII che nel 1898 si concede in un gesto benedicente alla macchina da presa di William K.L. Dickson segnano simbolicamente l’incontro tra il cinema e i Pontefici. Nella storia del cinema non sono poi state molte altre le esperienze di diretta partecipazione di un papa ad un’opera cinematografica. Il film “Pastor Angelicus” (1942) di Romolo Marcellini è forse il caso più conosciuto. Per il suo film si è rapportato in qualche modo a queste precedenti esperienze? E, più in generale, qual è il suo punto di vista rispetto al ruolo esercitato dalla figura dei Pontefici nell’immaginario cinematografico?
I Papi del passato sono figure quasi leggendarie, distanti dal resto dell’umanità.
È stato bello mostrare papa Francesco nella sua umiltà e umanità,
a bordo di una semplice Fiat anziché di una grossa limousine.
Come giudica l’accoglienza del film da parte del pubblico e della critica?
Quando uscì, il film risentì terribilmente delle ripercussioni che ebbe allora sulla Chiesa lo scandalo degli abusi.
Per questo, molto spesso il film non venne percepito per quello che era, e cioè un ritratto di questo coraggioso riformatore e grande umanista e uomo di Dio, ma come se rispecchiasse una Chiesa di cui non ci si poteva più fidare. Il film ha davvero risentito di questo pregiudizio, così come delle notizie false e tendenziose secondo cui sarebbe stato finanziato dal Vaticano, riducendolo a semplice “opera commissionata”, quasi fosse un’opera di propaganda. Nulla potrebbe essere più distante dalla verità.Non c’è mai stata alcuna intromissione e ho realizzato questo film in totale libertà.
A dire il vero, a tal punto ero così esclusivamente responsabile che, talvolta, in sala di montaggio, ho desiderato che qualcuno interferisse e mi dicesse cosa fare. Ma nessuno lo ha mai fatto…
L’esperienza del film l’ha portata per due anni a contatto diretto col Papa e con gli ambienti a lui vicini. Può raccontarci il “suo” Vaticano?
(Ride) “Il mio Vaticano” è consistito di sole tre persone. Papa Francesco in persona, monsignor Dario Edoardo Viganò, come suo “ministro della comunicazione” e il nostro gentile traduttore (di cui ho avuto bisogno dal momento che il mio spagnolo non era così buono da permettermi di capire sempre il forte accento argentino del Papa…). Non ho avuto rapporti con nessun altro e abbiamo girato il film passando praticamente inosservati dal “Vaticano”. Dopotutto,
non era un film sul Vaticano! Era un film su un uomo e la sua missione, un uomo davvero unico e coraggioso,
il primo Papa proveniente dal continente americano, il primo gesuita, il primo nella tradizione del grande riformatore San Francesco. A dire il vero, molti critici hanno ritenuto che avrei dovuto realizzare un film con una ben più critica visione del “Vaticano”. Ebbene, volevano un film diverso, ma non era quella la mia intenzione. Volevo ritrarre papa Francesco, non guardare all’Istituzione, di cui e della cui presunzione egli è stato, tra l’altro, uno dei più severi critici. Basti guardare la scena in cui si rivolge alla curia ed elenca ai cardinali le “malattie” che li affliggono! Nel realizzare un film non adotto l’approccio della “distanza critica”. Altri sono bravi a farlo, molto più di me.I miei film si sviluppano in modo diverso, vengono immersi in un altro mondo attraverso un approccio che ne è l’opposto, quello dello “sguardo amorevole”.
Indubbiamente la distanza critica permette di raggiungere certi risultati e in alcuni casi è necessaria e appropriata, ma lo sguardo amorevole ha il pregio di riuscire ad avvicinarsi di più al proprio soggetto, di condurti verso di lui (o lei) e farti entrare nella sua sfera più intimamente.
Dopo l’uscita del film ha più avuto modo di incontrare il Papa o di avere scambi con lui? Conosce il suo giudizio sul film?
So che non è molto interessato ai film. A lui piacciono le persone, non le immagini o le storie delle persone.
Mi scrisse di non aver visto il film per intero, ma di aver guardato le sequenze su San Francesco e che queste gli erano piaciute molto. Aggiunse che aveva saltato le scene con le sue apparizioni.
Capisco perfettamente e rispetto la scelta (anche se, un po’ per vanità, mi sarebbe proprio piaciuto che avesse guardato il film nella sua interezza).
È conosciuta la sua stima per il Papa, così come il suo particolare apprezzamento per alcuni documenti del suo magistero, come l’enciclica Laudato si’. Al momento dell’uscita del film ha più volte dichiarato che aver passato due anni con papa Francesco l’ha cambiata per sempre. A qualche tempo di distanza qual è la sua valutazione su questa esperienza? In generale, come è cambiato, se è cambiato, il suo rapporto con la sfera religiosa?
Questa è una domanda complessa. È vero, la fede di papa Francesco, il suo coraggio, la sua umiltà, la sua umanità e soprattutto il suo senso dell’umorismo hanno lasciato il segno. Il non prendersi troppo sul serio è qualcosa che ho imparato proprio da lui. Per quanto riguarda la “religione”, ripenso all’uomo che vidi in piedi, da solo, in piazza San Pietro.
Lì, per me, egli era davvero un “uomo qualunque” e simbolicamente stava lì in piedi per tutti noi!
Dio vede e ama ciascuno di noi per quello che siamo, questa è la mia fede e ciò in cui credo. La “religione” secondo me non deve essere fine a se stessa. La “Chiesa” non sta davanti a Dio “per noi”. Come tutte le istituzioni, essa tende a considerarsi la cosa più importante.Preferisco la visione di San Francesco, che concepì la Chiesa come un ministero di servizio.Inoltre, la prima dichiarazione di papa Francesco è stata quella di volere una “Chiesa per i poveri”. C’è ancora molta strada da fare per questo e per realizzare il sogno (o utopia) di San Francesco: una vera uguaglianza fra uomini e donne, una vera solidarietà con i poveri e gli svantaggiati e una vera solidarietà con “Madre Terra” (San Francesco è stato il primo a usare questo termine).Papa Francesco ha portato la Chiesa su questa strada e lo ammiro molto per questo,
ma ci vorrà molto più di un solo uomo e di una sola energia vitale per spostare definitivamente questa grande nave su quella rotta.
Gianluca della Maggiore
(traduzione a cura di Mariachiara Urso)