“Kripton”, il disagio mentale si cura in comunità. E si racconta al cinema
L'ultimo documentario di Francesco Munzi, prodotto da Cinemaundici e distribuito da ZaLab, è appena uscito in sala. Racconta la quotidianità e la vita interiore di tre uomini e tre donne in una comunità psichiatrica di Roma. E apre uno squarcio su un mondo sommerso, che ha bisogno di risorse
Non è Superman, ma un uomo con un passato difficile e una storia familiare complessa, convinto di essere il Messia perseguitato. Kripton, il pianeta da cui Marco Antonio dice di venire, è il titolo dell'ultimo documentario di Francesco Munzi, appena uscito in alcune sale, prodotto da Cinemaundici e distribuito da ZaLab. Lui, Marco Antonio, è uno dei sei protagonisti: tre giovani adulti, italiani e stranieri, ricoverati all'interno di due comunità psichiatriche della periferia romana. Tre donne e tre uomini, con vissuti, caratteri e tratti differenti, ma accomunati da un disturbo psichico che rende complicato e drammatico il loro relazionarsi con se stessi e col mondo.
“Difficile mondo”, lo definisce nel finale Benedetta, tra tutti la più silenziosa, mentre osserva le foglie al vento che, in un racconto del genere, sono tanto più evocative. “Difficili mondi” sono, appunto, quelli di Dimitri, Emerson, Marco Antonio, Benedetta, Georgiana e Silvia. Ciascuno di loro si svela, minuto dopo minuto, nella sua sofferenza e fatica, ma soprattutto nella sua profondità: i dubbi, le paure, le domande che esprimono sono quelli che ritroviamo in tutti noi, capaci però di contenerli e silenziali. In loro, invece, questi pensieri diventano ingovernabili e impetuosi, trasformandosi in angosce incontrollabili, alterazioni, crisi imprevedibili.
La loro vulnerabilità di fronte alle rispettive, differenti ossessioni – che sia il cibo o la religione, l'oscurità o la mancanza di senso – li ha allontanati dalle loro famiglie, per essere affidati ai servizi per la salute mentale: la loro vita quotidiana, scandita da incontri, terapie, confronti, si snoda dentro le stanze delle due comunità: una a tempo pieno, per i più gravi, l'altra “12 ore”, per chi può iniziare a sperimentare l'autonomia. I dialoghi non sono mai banali: catturano l'attenzione e conquistano con la loro profondità, con lo spessore di questa umanità piena di sofferenza, ma in costante ricerca.
La presa in carico
E poi ci sono i familiari, da un lato, i professionisti dall'altro: i primi confusi, a volte arrabbiati, con un bisogno disperato di risposte e di rassicurazioni, a volte a un passo dal gettare la spugna, ma poi mai davvero pronti a farlo. I professionisti sono gli psichiatri, gli psicologi e gli operatori che accompagnano questi uomini e queste donne nella scoperta e nell'espressione delle proprie sofferenze e delle proprie paure e non si lasciano sopraffare dalle loro crisi. Gli incontri allargati, con i familiari che si confrontano e mettono a nudo, condividendole, le proprie sofferenze, sono momenti di grande intensità, senza i quali non riusciremmo a comprendere quest'universo complesso che è il disagio mentale.
I volti, le storie
Kripton, che in greco significa nascosto, qui non il pianeta da cui proviene Superman, ma quello in cui dichiara di essere nato Marco Antonio, convinto di essere perseguitato per il suo essere “giudeo”: I”vitto” è l'ossessione di Silvia, che combatte disperatamente contro i suoi disturbi alimentari e cerca negli altri – nel padre, innanzitutto – la risposte che in sé non trova. Giorgiana ha scelto la rassicurante oscurità e da quando ha capito che questa “è ovunque”, si sente più tranquilla, anche se non riavrà mai la sua bambina, adottata da un'altra famiglia. Dimitri vorrebbe che i suoi genitori adottivi parlassero di sé e dei loro problemi, più che dei suoi, perché porta sulle spalle il peso di aspettative di cui non è stato all'altezza. E poi ci sono Benedetta ed Emerson, più silenziosi ma forse tra tutti i più attenti a ciò che accade intorno a loro: lei pronta a cogliere i pianti e le lacrime di Silvia, lui solerte nel porgere un fazzoletto alla mamma commossa.
Alla fine del documentario, si ha quasi il desiderio di andare a incontrarli, questi uomini e queste donne che si sono messi a nudo, con le loro debolezze ma anche con la loro forza. Si sente il calore, ma anche la fatica di queste comunità che, per periodi più o meno lunghi, diventano la famiglia di chi ha un problema troppo grosso per poterlo affrontare nella propria, di famiglia.
I “numeri” del disturbo mentale
I cartelli finali raccontano, con pochi numeri, le dimensioni e le difficoltà di questo universo popolato di storie, che è un pezzo importante del sistema sociosanitario del nostro Paese:
“Nel 2022, circa 800 mila persone sono state prese in cura presso i servizi di salute mentale pubblici. Tra questi, circa 28 mila erano ospitati in strutture residenziali comunitarie. Si stima che in Italia, nel 2022, le persone che hanno manifestato disturbi mentali di rilevanza clinica siano state circa 3 milioni. Il disagio mentale è in crescita, soprattutto dopo la pandemia, in particolare tra gli adolescenti, per i quali si considera un aumento di circa il 30% dei casi. Nell'anno 2022, il consumo di psicofarmaci è stato pari a 49 milioni di confezioni. Poco più dell'1% è stato prescritto da strutture ospedaliere o servizi per la salute mentale. La maggior parte delle prescrizioni arriva da medici di base o da specialisti privati. I servizi di salute mentale sono stati tra i più colpiti dalla riduzione delle risorse investite nella sanità pubblicistica. Stigma sociale e carenza d'informazione sulla malattia mentale ostacolano spesso la tempestività e la possibilità della cura”.
“Racconto modalità estreme di stare al mondo”
Così Francesco Munzi racconta come e perché ha deciso di raccontare questo mondo: “Il mio film nasce da progressivi avvicinamenti, all’interno di due strutture psichiatriche della periferia di Roma, a ragazze e ragazzi, affetti da malattie psichiche. È un film di ricerca e di condivisione, fatto con i pazienti che hanno scelto di raccontarsi. Insieme a loro hanno partecipato i medici e i familiari il cui contributo è stato fondamentale per la completezza del racconto. Il mio desiderio principale era trovare la voce, la lingua, per rappresentare, con il cinema, modalità estreme di stare al mondo”.
Un mondo solo apparentemente distante ed estraneo: le esperienze e i vissuti che vengono raccontati “appartengono ai malati, mail mondo cosiddetto normale ne condivide, spesso senza ammetterlo, temi, paure e domande diventate oggi sconvenienti, vergognose o proibite. Il nostro presente, ossessivamente stimolato da un’euforia performativa che gira spesso a vuoto, tenta di estromettere dalla comunicazione e spesso anche dalla 'pensabilità' le domande fondamentali, quelle universali dell’essere umano. Sembra paradossale ma sono proprio le domande che si pongono una gran parte dei pazienti, rimanendoci loro però, a differenza dei più, drammaticamente incagliati, perché troppo fragili per sostenerne il peso”.
Per questo, la follia è per Munzi “la più efficace tra le possibili metafore che illuminano il nostro tempo, visto il senso di 'irrealtà' che a volte sembra aver inghiottito tutti quanti. I dati parlano chiaro: gli psicofarmaci rappresentano una delle principali componenti della spesa farmaceutica pubblica, emergono forme di disagio psichico che non erano altrettanto rilevanti nella psicopatologia del novecento: disturbi di panico, borderline, anoressia, fenomeni di ritiro sociale che riguardano ragazzi sempre più giovani. Le risposte sul perché di questo andamento e sulle possibili cure le lasciamo ai medici, agli specialisti, agli esperti. Eppure l’accettazione, l’integrazione, la normalizzazione del problema psichico dovrebbe essere un compito dell’intera collettività. D’altro canto è proprio una delle protagoniste del film, Benedetta, a lasciarci intravedere una possibile soluzione, semplice, ma potentissima: l’importanza della vicinanza, la necessità della condivisione, la lotta all’isolamento”.
Chiara Ludovisi