Un corpo che non vuole obbedire e un viaggio con la sclerosi multipla
In “Bianco è il colore del danno”, della giornalista Francesca Mannocchi, l’autrice scopre cose su cui non ha mai riflettuto abbastanza, cioè che la malattia non investe solo la sfera privata
Non è la storia di un approdo, ma la cronaca di una partenza per un viaggio il cui esito appare incerto e, quanto meno, destabilizzante. “Bianco è il colore del danno” della giornalista Francesca Mannocchi non ha, nei fatti, le caratteristiche del memoir a cui un certo tipo di narrativa, che si potrebbe definire di genere, ci ha abituati. Quella che, con toni a volte ironici a volte drammatici e più spesso attraverso una combinazione di entrambi i registri, è solita raccontare l’incontro con la disabilità acquisita come un percorso di caduta e di successiva rinascita. Vite che, nei punti di svolta, nei momenti più energetici e più luminosi, si infrangono contro l’asprezza di una malattia o contro il destino arcigno di un accadimento drammatico e poi, dopo aver attraversato il tunnel cupo del disorientamento e della depressione, ritrovano nuovi e più complessi equilibri.
Non così per Francesca Mannocchi. Anche lei come migliaia di altre persone che ogni anno si ammalano di sclerosi multipla è colta di sorpresa, all’improvviso, un giorno in cui la sua vita sembrava andare in tutt’altra direzione. Una storia d’amore ancora nel pieno del suo sviluppo, un figlio appena nato e un lavoro da reporter di guerra, avvertito come necessario, riempiono gli spazi e i pensieri di Francesca, il mattino in cui, in un albergo di Palermo, metà del suo corpo non risponde più ai comandi.
Ci vorranno, però, mesi a dare un nome a quella ribellione dell’organismo, che diventa nemico di se stesso, attraverso una malattia autoimmune, il cui decorso si nutre di incertezze: "Il peggioramento è potenziale, la stabilizzazione è potenziale. L’immobilità è potenziale, la cecità lo è", scrive l’autrice, costretta a un cambio di prospettiva sulla definizione della propria identità e sul senso di un tempo che non sembra più appartenerle. Perché anche nel tempo delle attese (nei corridoi d’ospedale, davanti alle porte dei dottori, nella speranza di potere fare un esame indispensabile attraverso i canali della sanità pubblica, nella ricerca di una diagnosi che dia un nome definitivo a una somma di sintomi minacciosi) che si gioca la differenza tra i sani e i malati. Con i malati a ridefinire continuamente il proprio linguaggio dinanzi ai sani che posano su di loro il proprio sguardo indulgente e, al tempo stesso, giudicante.
Francesca, però, non sa rassegnarsi a quell’ammutinamento del corpo e reagisce interrogandosi, in modo sempre più incalzante. Cerca le parole migliori, quelle che sappiano mediare tra le parole della scienza e quelle del malato, tra il razionale e l’irrazionale. Si interroga sulle cause della malattia, cercando di strappare alla vita le risposte che la scienza non sa offrire. E contemporaneamente scopre cose su cui non ha mai riflettuto abbastanza, cioè che la malattia non investe solo la sfera privata. Che ogni malato di sclerosi multipla spende in media 45mila euro l’anno, senza contare i costi intangibili. Che la sanità pubblica è una conquista collettiva, che riguarda tutti. Che la malattia rappresenta ancora (e non dovrebbe) qualcosa che fa vergognare.
(La recensione è tratta dal numero di SuperAbile INAIL di marzo, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)
Antonella Patete