Rom, il lockdown? “Un momento di doppia privazione, da non ripetere”
A Bologna la presenza di rom che vivono in insediamenti informali si è più che dimezzata. Chi è rimasto in città non riusciva a guadagnare abbastanza per sostenere la famiglia in Romania, e molti si sono rivolti ai servizi sociali. Simanella (Piccola Carovana): “Il consumo alcolico è aumentato fortissimamente, perché si riteneva che ingerire alcol aiutasse a non prendere il virus”
“Per le persone rom che vivono in insediamenti informali, il lockdown è stato un momento di doppia privazione: da un lato vivevano una limitazione della propria libertà di movimento, e questo spesso ha fatto sì che non avessero entrate, dall’altro, non avendo una casa, non avevano un posto sicuro dove trascorrere la quarantena”. Guido Simanella è il coordinatore di Città Invisibili, unità di strada della cooperativa sociale Piccola Carovana, che a Bologna si occupa di grave emarginazione adulta e che in particolare supporta le persone rom rumene che vivono nella periferia della città.
Durante la pandemia, il servizio non si è fermato e gli operatori hanno continuato con l’attività di prossimità, per incontrare le persone direttamente sul territorio. “In quel periodo, molti rom sono tornati in Romania: anche se le frontiere erano chiuse, alcune auto riuscivano comunque a passare – spiega Simanella –. Da una presenza media di 100-150 persone, siamo passati a una cinquantina. I giri della nostra unità quindi sono diminuiti e si sono concentrati negli insediamenti dove c’era ancora gente. Abbiamo continuato a fare quello che facciamo di solito: dare informazioni sui servizi del territorio, monitorare le situazioni più critiche a livello sociale o sanitario, e attivare di percorsi di integrazione, quando possibile”.
Nel momento dell’emergenza, i pochi che sono rimasti a Bologna sono andati avanti come potevano: alcuni stavano ai semafori a lavorare come lavavetri, altri facevano la questua, ma era molto difficile perché in giro c’erano pochissime persone. E in più dovevano fare attenzione a non essere fermati dalla polizia, visto il divieto di circolare. “Naturalmente i loro guadagni sono calati tantissimo e non avevano entrate economiche che permettevano di sostenere la famiglia in Romania – afferma Simanella –. Questi rom vivono a Bologna come migranti economici: sono qui per lavorare e mandare a casa la maggior parte del guadagno. Durante il lockdown, tutto questo non è stato più possibile”.
Per fortuna in città erano rimasti attivi tre punti di distribuzione cibo, dunque chi aveva bisogno andava a mangiare alla mensa. “Non è stato facile: i rom di solito hanno grandi resistenze a usufruire dei servizi del Comune, sono diffidenti nei confronti degli altri gruppi etnici e hanno paura del consumo di sostanze – racconta –. Anche in quarantena, la possibilità di andare a dormire in una struttura non è quasi mai stata presa in considerazione: non accettano di dividere la coppia, e i dormitori sono solo maschili o solo femminili”.
E poi c’era il timore del Covid. La maggior parte era spaventata dalla possibilità di ammalarsi, mentre altri avevano la convinzione che i rom rumeni non potessero contrarre il virus. “Era il loro modo per esorcizzare la paura – conclude Simanella –. Il consumo alcolico è aumentato fortissimamente nella comunità rom, perché si riteneva che ingerire alcol li aiutasse a non prendere il virus. Non era facile spiegare loro che è diverso mettersi l’alcol sulle mani, rispetto a ingerirlo. Fino ad oggi non ci sono stati casi positivi accertati, ma è anche vero che non si sono fatti tamponi in modo capillare”.
Alice Facchini