Resurrezione come memoria. La passione e la Pasqua nella letteratura

È quell’umano, radicalmente e drammaticamente umano della letteratura, che testimonia come la Resurrezione rechi il ricordo di un prima che sembrava, ed era, insensatezza, disperazione, caduta

Resurrezione come memoria. La passione e la Pasqua nella letteratura

“Nel Signor chi si confida

col Signor risorgerà”

Alessandro Manzoni conclude così l’inno sacro della Resurrezione, nel giugno del 1812: dopo la disperazione, ecco giungere un “estranio giovinetto”, l’angelo che annuncia “è risorto; non è qui”. Con una parte finale che andrebbe riletta alla luce dei nostri tempi di nuove povertà e vecchie miserie, perché il poeta, convertitosi dopo un periodo di sensismo e materialismo, invita i ricchi a lasciar da parte le “superbe imbandigioni”, i pasti fastosi e inutili, per andare incontro a coloro che non hanno niente da far mangiare ai figli. Una lirica che, nonostante i versi un po’ troppo retorici e alla ricerca dell’effetto metrico, va oltre il suo tempo e parla a noi tutti, compresi i signori delle ricchezze planetarie.

Manzoni non ignora la sofferenza del prima, del dolore, della morte, in una lirica che guarda alla Pasqua come una festa in cui non deve essere dimenticata la sorte di chi non ce la fa.

No, la letteratura non ha dimenticato ciò che si cela dietro la festa: il Bassani del Giardino dei Finzi-Contini ricorda uno scenario familiare: la cena per la celebrazione della Pasqua ebraica, per pochi intimi e in tono minore, perché stava per accadere qualcosa, le leggi razziali e le deportazioni, che avrebbe capovolto l’illuministica fiducia nelle sorti magnifiche e progressive dell’umanità, come aveva intuito, esattamente cento anni prima, il Leopardi della Ginestra. La stessa natura sembra, nel romanzo, partecipare e quasi avvertire i concelebranti di una tragedia che stava per compiersi: “senonchè, improvvisamente, dal portone rimasto mezzo aperto, là, contro il nero della notte, ecco irrompere nel portico una raffica di vento. È vento d’uragano, e viene dalla notte”.

Il laico Pascoli non può sottrarsi al fascino di una festa che sottintende il sacrificio, quello di Cristo, accettato nonostante l’umana, troppo umana, -dirà Nietzsche nello stesso periodo del poeta della Cavalla storna- sofferenza: in una sua poesia dedicata fin dal titolo a Gesù, il Cristo prende in braccio anche il figlio di Barabba, dopo aver misteriosamente ripetuto che “se non è chi celi/ sotterra il seme, non sarà chi mieta”: la necessità del sacrificio radicale per ridare vita alla speranza e al sorriso dei piccoli.

La speranza scaturita dall’esempio di chi ha accettato l’orrore dell’umana sofferenza, pur potendone fare a meno, è messa bene in evidenza da un importante poeta cristiano del Novecento, Umberto Marvardi che nella sezione intitolata “Preghiere” in Dal tramonto all’alba scrive: “Ma sento ancora in me,/ che mi sostiene dalla notte all’alba,/ lontana e scialba/ la eco del tuo grido che dal Golgotha/ m’allevia e mi conforta/ o straziato Gesù”.

Molti altri scrittori hanno fatto allusione ad una Pasqua preceduta dall’incubo e dalla sofferenza, come il Chesterton di L’uomo che fu giovedì, in cui la pagina finale con l’apparizione salvifica della fanciulla che raccoglie fiori, ricordo della Matelda alla fine del Purgatorio di Dante, preceduta dall’oscurità e dal pericolo, è anticipata dalla scena in cui risuona una domanda: “potete bere il calice che io bevo?”.

La sofferenza del Cristo diviene la preparazione ad una luce che splende proprio per quella sofferenza, come nel Tolstoj di Resurrezione, in cui il protagonista sceglie di seguire una delle rifiutate dal mondo per riparare la propria colpa che aveva causato la rovina della ragazza.

È quell’umano, radicalmente e drammaticamente umano della letteratura, che testimonia come la Resurrezione rechi il ricordo di un prima che sembrava, ed era, insensatezza, disperazione, caduta.

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Fonte: Sir