"Maestrale" di Anna Piratti compie dieci anni
Dieci anni di “Maestrale”. L’installazione di carta site specific dell’artista visiva padovana Anna Piratti “festeggia” venerdì 21 giugno – nella Cattedrale ex Macello di via Cornaro 1, a Padova – all’interno del progetto “Portello segreto” a cura dell’associazione culturale Fantalica, giunto alla nona edizione (con il patrocinio del Comune di Padova).
“Maestrale, che “prende vita” alle 19, dura solo un’ora. È quindi un’occasione unica per assistere a questa proposta di arte contemporanea, nel decennale della sua ideazione. Arricchisce l’evento un intervento teatrale a cura dell’associazione Fantalica e con la partecipazione dell’attrice Martina Zanarella.
L’installazione si compone di migliaia di barche di carta – bianche e rosse – collezionate dall’artista fin dal 2013, anno in cui questo progetto ha mosso i primi passi per poi debuttare al pubblico nel 2014. Le barche sono state realizzate insieme a quanti hanno preso parte nel corso degli anni alle sue azioni di arte collettiva, ai laboratori e agli happening: alunni, persone sul posto di lavoro, passanti per la strada, visitatori dei musei, gruppi di partecipanti a workshop e laboratori, partecipanti a eventi aziendali. Grazie a loro oggi l’opera può contare circa 4.000 barche.
La metafora artistica s’ispira al vento maestro della navigazione, la forma è sempre diversa, muta e si modella come fa l’acqua, occupando lo spazio e mettendosi in dialogo con pavimenti, prati o scalinate. L’installazione vive, inoltre, nella misura in cui è agita nel momento presente. In “Maestrale” – in particolare – i visitatori sono invitati a prendervi parte aggiungendo una barca rossa, fornita dall’artista, al flusso delle barche bianche. La barca rossa rappresenta nel qui e ora la persona che la tiene tra le mani e compie l’azione.
“Maestrale” ha preso vita, lungo dieci anni, in numerosi luoghi e con numerosi protagonisti: presso la scuola media del Seminario Minore di Padova, a Palazzo Roverella di Rovigo, al Centro culturale Candiani di Mestre, sulla spiaggia di Ca’ Roman nella Laguna di Venezia, al Musme-Museo di storia della medicina di Padova, al Museo di Villa Bassi Rathgeb ad Abano Terme, nell’Aula Magna dell’Università di Padova, in piazza del Municipio a Rubano, al Museo della Padova Ebraica…
Anna Piratti, com’è nato “Maestrale”?
«L’idea è nata per caso tra i banchi di scuola, negli anni in cui ero docente di “arte immagine" alle medie (anno scolastico 2013-14). Ero in una classe prima, con alunni di 11-12 anni. Avevo progettato una lezione un po’ particolare che usciva dal programma canonico, dedicata all’arte dell’installazione. Proietto quindi foto e video di installazioni che avevo selezionato – spettacolari, meravigliose – esposte da New York a Londra, da Berlino a Madrid. Un alunno di nome Francesco alza la mano e commenta serafico: “Beh, possiamo farla anche noi una cosa così”. Resto di sasso. Non so se sono una prof che si deve arrabbiare per la spocchia dell’alunno o una prof che vede la mancanza di limiti della mente dell’alunno. Opto per la seconda ipotesi e rispondo: “Va bene, facciamo anche noi”. Ribellione della classe, ma ormai il dado era tratto. Con i mezzi che avevamo (di carta a scuola ce n’è), con le competenze che avevamo (almeno metà classe era in grado di fare una barca, gli altri avrebbero imparato, la chiamano cooperative learning), con il tempo che avevamo (un trimestre) siamo partiti. Il programma scolastico continuava regolare, ma in parallelo ognuno di loro doveva fare una barca di carta al giorno e consegnarla il lunedì. Si sono uniti fratelli, cugini, nonni e vicini di casa. La cosa si è espansa, da sola, al punto che ogni lunedì arrivavano sacchetti pieni di barche. Vedendo crescere il lavoro è nata l’esigenza di distinguerci come classe prima, così abbiamo deciso di fare ognuno una barca di un altro colore e non poteva che essere di colore rosso, dinamico, vitale e vivace. A fine anno abbiamo installato le nostre prime centinaia di barche bianche con 21 barche rosse: orgogliosamente la classe prima, nel flusso della vita. Commento di un genitore la sera dell’inaugurazione: “Mi scusi la franchezza, ma a un certo punto ho creduto che lei fosse impazzita. Mia figlia non voleva dirmi cosa stava combinando, diceva solo questo: è per la lezione di arte. E intanto la mia famiglia si riuniva la sera a fare barche, ma adesso che vedo questo lavoro… non so che dire”».
Come mai hai scelto di dare proprio questa forma, con la barche di carta, a “Maestrale”?
«Il primo “Maestrale”, quello della scuola, portava il titolo di una canzone degli One Direction, molto in voga all’epoca: The Story of my Life. La didascalia scritta dagli alunni a suo tempo era la seguente: “Quando siamo piccoli tutto è perfetto. L'oceano è calmo e gli adulti si occupano di noi. Poi, quando diventiamo adolescenti, c'è una gran confusione. Grandi onde e molte tempeste. Dopo c'è il futuro. Che é bellissimo”. Il nucleo dell’opera è immutato da allora, intende cioè interpretare un’evidenza, che è, in ogni fase della vita, una continua scoperta: ci sono giornate, momenti sconvolgenti, tempestosi, c’è chi ti protegge, chi ti attacca, chi è al tuo fianco, chi no…. Ciò che ho soprattutto voluto conservare negli anni è l’ultima frase: “Dopo c'è il futuro. Che è bellissimo.” Questa speranza disarmante, questa illogica fiducia in un futuro, che, per il fatto che sia futuro è bellissimo, come appare agli occhi dei più piccoli. Il passo in più che fa il “Maestrale” di oggi è interpretare la stessa fiducia nel momento presente, quale che siano le circostanze. L’idea di un vento che ti muove da dentro, questa gioia di esistere, connaturata al fatto che si esiste, mi è venuta dallo stare insieme a queste giovani menti che hanno portato a termine un’impresa certamente più grande di loro. Lo hanno fatto, non è solo concetto, è azione. E poi il “Maestrale” che mi ha guidato a raccogliere la provocazione iniziale dell’alunno, vedendo in essa non un affronto alla cultura, ma un’opportunità di mettersi al servizio di un’intuizione».
“Maestrale” è solo un vento... o qualcosa di più?
«Ho scelto questo nome perché si sposa con l’idea di forza che guida, che traina, perché identifica un elemento non tangibile, perché apre una prospettiva. Se penso a un vento che soffia sul mare, non ho un’immagine “stabile”, e quindi descrive anche la mutevolezza della condizione umana e per certi versi l’inconsistenza di quel voler tenere tutto sotto controllo. È un nome poetico e dalle radici antiche. Per me il nome “maestrale”, unito all’immagine di tanti elementi piccoli che vanno insieme, evoca l’idea della forza della solidarietà, quando non vige più la legge del più forte, o del più ricco, o del più fortunato, vige la legge della Natura, dove ognuno ha un suo spazio di dignità».
Cosa vuoi dire con questa installazione?
«Voglio dire che siamo tutti chiamati a prendere la responsabilità del nostro esistere, poiché questo tocca anche le esistenze altrui. Non è slegato, è un flusso che ci unisce. Voglio esprimere così anche la speranza, veicolata attraverso il canone estetico, che insieme possiamo essere la versione migliore di noi da soli. Sono consapevole che possa sembrare un messaggio ingenuo in un tempo in cui prevale la logica predatoria. Ma l’arte deve fare il suo dovere, che non è quello di intrattenere o sedurre, ma quello di elevare le coscienze. Se non avessimo remato insieme fin dall’origine del mondo ci saremmo estinti. È perfino un concetto evoluzionistico, se proprio non vogliamo quello spirituale».
Come pensi possa provocare le persone che, in vari modi, si sentono coinvolte?
«Le barche di carta restituiscono un quadro di quiete, è una bellezza delicata, come quella di un fiore. Ti spiazza nella sua semplicità. Soprattutto per chi partecipa ai laboratori, è molto bello vedere esplodere numericamente l’opera praticamente tra le proprie mani, ha quell’effetto di promuovere nell’intimo quel che si sta facendo. Se pensiamo che nessuno si porta a casa niente, tutto viene lasciato per la successiva edizione di “Maestrale”, cioè a favore di altre persone, è un’esperienza forte oggi. Insomma, è l’esercizio dell’inutile. Non mancano le critiche e le battute scontate – “Le barchette di carta sono cose da bambini…” – ma puntualmente sono queste stesse voci che poi si convertono e diventano ferventi sostenitrici dell’opera».
Come ti pare che Maestrale sia "cresciuto" in questi dieci anni?
«Esteticamente ha assunto forme più complesse, più mature, più decise. Io stessa ha imparato a modellarlo meglio, a impararne il potenziale, ad ampliare la sua estensione sia pratica che concettuale. In questo lavoro il luogo è determinante, trattandosi di un’opera site specific, una buona quota del suo potere espressivo passa per l’ambiente in cui è esposta. “Maestrale” esposto sull’asfalto di una zona industriale parla con un certo tono di voce, esposto sul pavimento di un palazzo storico, ne ha un altro. E poi c’è la “storia” delle barche: quelle del 2013-14 si riconoscono subito, sono quelle più ingiallite. Ecco, questo mi commuove, resistono, piegate e ripiegate centinaia di volte da mani sempre diverse. Hanno la forza della giovinezza, della bellezza, hanno la speranza in quel presente-futuro di cui abbiamo tutti un gran bisogno».
Qualche restituzione, da parte di chi si è lasciato coinvolgere, che ti ha particolarmente colpito…
«Un signore mi si avvicina e mi dice, serio: “Non so dove mettere la mia barca rossa, non so qual è il mio posto in questo mondo”. Gli rispondo: “Provi a metterla in un posto secondo lei bello, senza nessun altro motivo, si comincia sempre da qualche parte no?”. “Allora la metto lì”. E indica un punto dell’installazione. E se ne va a mettere la sua barca con una lentezza commovente. Ha esitato molto e infine l’ha messa. Più che le parole sono stati i gesti a dire tutto. Ricevo inoltre messaggi privati in cui le persone mi spiegano i motivi per cui hanno scelto di mettere la barca rossa qui o lì. Mi dicono che è un atto profondo che li sorprende».