La lezione del parkour a Gaza: tutti i muri vanno superati

Fondatore del gruppo Gaza Parkour, oggi Abdallah Inshasi è in carrozzina e vive in Italia. Ma con i suoi vecchi compagni ha costruito una palestra per i bambini della Striscia, dove è attivo anche un programma per persone disabili. Intervista pubblicata sulla rivista SuperAbile Inail

La lezione del parkour a Gaza: tutti i muri vanno superati

Quando ha capito la libertà che dava saltare tra le macerie della Striscia ha fondato il gruppo Gaza Parkour, che nel 2019 è stato raccontato nel documentario “One more jump” dell’italiano Manu Gerosa. L’anno prima che il film uscisse, quando ormai il traceur si era trasferito in Italia per continuare la sua carriera da atleta, una capriola chiusa male in allenamento ha segnato la sua vita per sempre. Oggi Abdallah Inshasi, classe 1988, è in carrozzina, ma non dimentica la lezione del parkour: "Quello che non ti uccide, ti rende più forte. E io ora mi sento più forte".

Come, quando e perché è nato il Gaza Parkour?
“Nel 2003 facevo molta attività fisica da solo o con i ragazzi del quartiere. Un giorno ho visto un film-documentario che raccontava di un gruppo di parkour di Londra. Ho iniziato a informarmi e, nello stesso tempo, ne parlavo con gli amici perché mi sembrava che nessuno meglio di noi palestinesi potesse comprendere lo spirito del parkour. Così, nel 2005, abbiamo costruito un gruppo che si chiamava proprio Pal Parkour, diventato in seguito Gaza Parkour”.

Cosa rappresenta il parkour per lei e per il gruppo?
“Per noi giovani palestinesi lo sport non è solo un’attività per mantenersi in forma o per passare il tempo. Lo sport nella Striscia ha un significato più grande: intanto è un modo per stare insieme e dimenticare i problemi di tutti i giorni, la storia di ogni famiglia dove ci sono morti, feriti, invalidi, carcerati... Poi è un modo per prendersi cura dei bambini nei momenti più difficili, per esempio quando cadono le bombe. Ma soprattutto lo sport è una forma di resistenza. Noi palestinesi siamo cresciuti con questa parola. Da quando c’è l’occupazione israeliana, c’è anche la resistenza, in tante forme diverse: nella politica, nell’arte, nella cultura, nella musica e anche nello sport. C’è la volontà di non accettare le cose come sono, ma di migliorare sempre. Il parkour è proprio questo: una sfida continua. Vedi l’ostacolo e provi a superarlo. Se non ce la fai, hai ancora più voglia di impegnarti giorno per giorno finché non ci riesci. Allora passi a qualcosa di più difficile. Ho scelto il parkour perché era un’attività a cui eravamo già allenati: scappare, saltare muri, trovare percorsi alternativi quando c’erano i soldati”.

Perché ha deciso di venire in Italia e come si è inserito qui?
“Per me, come per molti atleti, lo sport è stata un’occasione per uscire dalla prigione di Gaza e scoprire una vita diversa, dove nessuno ti ferma e non ci sono confini invalicabili. Ho deciso di lasciare Gaza, non di venire in Italia. Quello è successo per caso, perché l’Italia è stato il primo Paese di entrata, è stata una scelta dettata dalla legge. All’inizio non è stato facile ottenere i documenti: andavo in Questura e mi preparavo le risposte, come per passare un esame. Ci sono voluti sei mesi per averli. Io però non stavo tanto nel centro di accoglienza, perché andavo a Firenze, a Roma, a Crotone... Gli amici organizzavano spettacoli di parkour in diverse città e mi chiamavano, e io raccontavo la storia del nostro gruppo e la causa palestinese. Mi invitavano anche nelle scuole. Questi contatti e questi viaggi mi hanno aiutato a imparare in fretta, a incontrare e conoscere diverse culture”.

Dopo l’incidente come è cambiata la sua vita? Di cosa si occupa e in che modo sostiene la gente di Gaza?
“Dopo l’incidente nel 2018, durante un allenamento a Rovereto, è cominciata una grande sfida, la mia vita ha dovuto trovare altri equilibri. Un’esperienza importante è stata la partecipazione al film di Emanuele Gerosa, che è uscito l’anno dopo. Alle presentazioni a cui ero invitato dovevo affrontare tutto quello che era successo: il prima e il dopo l’incidente. Poi ho deciso di riprendere a studiare e quest’anno ho superato l’esame di terza media. Continuo a fare sport: palestra, handbike e tiro con l’arco. Continuo poi a rimanere in contatto con Gaza e mi sento parte del movimento di resistenza: ognuno di noi combatte con le proprie capacità e io, in tutto quello che faccio, porto sempre avanti la causa palestinese”.

Dalle acrobazie alla carrozzina: quanto ci ha messo ad accettare questo cambiamento?
“Fin dal risveglio in ospedale, ho provato a fare le cose da solo. Non mi sono mai scoraggiato, ho spiegato tutto alla mia famiglia e ho chiesto loro di essermi vicini e di non rattristarsi. Ora sono autonomo e viaggio spesso da solo”.

Oggi che cos’è per lei il parkour? È ancora in contatto con il gruppo?
“È il mio modo di guardare il mondo, è la disciplina che mi permette di affrontare gli ostacoli della vita. Con il gruppo Parkour Gaza abbiamo costruito una palestra, finanziata da una ong francese, in cui si allenano bambine e bambini, ragazze e ragazzi. In particolare è stato attivato un programma per persone con disabilità. Inoltre il gruppo fa spettacoli nelle scuole dove hanno trovato riparo le famiglie che hanno perso la casa nei recenti bombardamenti”.

Qui in Italia che progetti ha? E cosa sogna per Gaza?
“Vorrei progettare una palestra per disabili, perciò mi preparo a un lungo periodo di studio per riuscire a usare la mia esperienza per aiutare gli altri. Spero anche di trovare una compagna e fare una famiglia. E sogno la libertà dall’occupazione e la pace per tutta la Palestina”.

(L’articolo è tratto dal numero di agosto-settembre di SuperAbile INAIL, il mensile dell’Inail sui temi della disabilità)

Chiara Ludovisi

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)