"La casa come luogo di cura”: il racconto (e le richieste) di chi la vive ogni giorno
Nel suo discorso al Senato, il neo premier ha fatto riferimento, tra l'altro, al ruolo dell'assistenza domiciliare integrata nelle riforma sanitaria, durante la pandemia e non solo. Un'esperienza vissuta, spesso con grandi difficoltà, dalle persone gravemente disabili. “La casa può diventare prigione, se l'assistente non è adeguato o cambia ogni giorno”
“È questa la strada per rendere realmente esigibili i Livelli essenziali di assistenza e affidare agli ospedali le esigenze sanitarie acute, post acute e riabilitative. La 'casa come principale luogo di cura' è oggi possibile con la telemedicina, con l’assistenza domiciliare integrata”: è questo uno dei passaggi fondamentali della riforma sanitaria illustrata ieri dal nuovo premier Draghi nel suo discorso al Senato. Il riferimento era innanzitutto, ma non esclusivamente, all'emergenza pandemica, che ha svelato l'insufficienza del sistema ospedaliero nell'accogliere e farsi carico di tanti pazienti. Ma quel trinomio, “assistenza domiciliare integrata”, in breve Adi, è già realtà per chi ha in casa una patologia cronica, una disabilità grave, in altre parole una non autosufficienza. Un'esperienza tutt'altro che facile, un servizio tutt'altro che funzionante, una risorsa oggi tutt'altro che capace di sostenere efficacemente le persone che in quella casa vivono e “curano”,
Redattore Sociale ha chiesto a Mariangela Lamanna Sara Bonanno, e Marina Cometto, “esperte per esperienza” di assistenza domiciliare, di indicare le principali criticità, suggerendo al governo le priorità perché la casa non diventi prigione, più che luogo di cura.
“L'Adi può funzionare solo con sostegni adeguati”
“Il problema fondamentale dell'assistenza domiciliare integrata nel nostro Paese è che lo Stato ha delegato completamente alle famiglie la gestione dei pazienti complessi, dimenticandosi totalmente di essere il principale responsabile della presa in carico di questi ammalati – osserva Mariangela Lamanna, presidente del Comitato 16 novembre, che al tema del Fondo per la non autosufficienza e delle risorse per la domiciliarità dedica tempo e battaglie – Nei luoghi dedicati alla cura, come rianimazioni, reparti ospedalieri, Rsa, le persone non autosufficienti o gravemente disabili avrebbero un costo tanto importante da mandare al collasso il sistema sanitario nazionale. È molto facile allora per il governo eleggerci caregiver senza darci formazione, senza garantirci un sostegno economico congruo, proprio in quanto caregiver. L'Adi – afferma Lamanna - può funzionare solo nel momento in cui ci sia da una parte formazione adeguata dei caregiver, dall'altra un'assistenza domiciliare congrua e cospicua. In questo momento, questo servizio può contare solo sulla dedizione delle famiglie che gestiscono questi ammalati: per il resto non c'è nulla – denuncia Lamanna – Gli ausili sono inadeguati, il tariffario obsoleto e anche quando esista lo strumento tecnologico per rendere la vita più facile alla persona non autosufficiente e alla sua famiglia, viene chiesta la compartecipazione. Senza gli adeguati sostegni, ripeto, l'Adi è oggi solo un pericoloso meccanismo di delega”.
"Sulle mie spalle di mamma anziana, un carico troppo pesante"
E' quello che accade a Marina Cometto, mamma non più giovane di una figlia gravemente disabile ormai adulta. “Oggi l'assistenza domiciliare è un grande problema – ci racconta - Pazienti come mia figlia non possono essere affidati a badanti o Oss, che non possono fare manovre mediche, come aspirare con l'aspiratore chirurgico o usare un defribillatore, o il pallone ambu per rianimare, o somministrare ossigeno: ci vuole assistenza sanitaria, pagata dal Servizio sanitario nazionale, senza limiti di reddito, perché la sanità è gratuita per tutti. Invece, cosa succede? Succede che le famiglie, i caregiver. nel mio caso io madre, devono fare tutto, anche interventi sanitari, con il rischio di essere accusati di abuso di professione sanitaria. Ma dobbiamo farlo, se vogliamo offrire la serenità del proprio ambiente ai nostri cari. Siamo in pochi a rivolgerci alla legge e ai tribunali, per vederci riconosciuto il diritto a un'assistenza infermieristica domiciliare di più ore al giorno. La maggior parte, quasi tutti, soccombono, rassegnandosi a fare tutto, trasformandosi in medici, infermieri e tanto altro. Anche questa è solitudine: si fa perché si ama, ma di questo amore lo Stato non dovrebbe approfittare. Invece si dà per scontato che, se non non accetti il ricovero in struttura, allora devi immolarti. E per noi caregiver anziani questo è particolarmente faticoso e rischioso, perché il peso sulle nostre spalle è davvero troppo pesante”
“Trattati come oggetti: ci si abitua a tutto, ma non alla reificazione”
“Ci sono tante cose a cui mi sono abituata: mi sono abituata alla deprivazione del sonno, ormai il mio ritmo circadiano mi dice che devo dormire tra le 15 e le 17, l'ora in cui posso affidare mio figlio in mani sicure – racconta Sara Bonanno, mamma e unica caregiver familiare di suo figlio Simone, gravemente disabile - Mi sono da tempo abituata, molto prima della pandemia, a vivere agli 'arresti domiciliari', con il 'fuori' sognato ed agognato ogni giorno, dove una passeggiata di qualche minuto è diventato un viaggio avventuroso. Mi sono abituata a vivere con l'ansia di perdere la persona che conta più di tutto nella mia vita, mio figlio. Mi sono abituata alla perdita. Ma c'è una cosa a cui non riesco proprio abituarmi io e non ci riesce Simone. Ed io credo che non sia così strano che non si riesca ad abituarsi di ciò che Franco Basaglia definiva reificazione, ovvero essere trattati come una 'cosa', un pacco, un oggetto privo di sensibilità e di vita”. Ed è questo che può accadere, secondo Bonanno, quando l'assistenza domiciliare non assicura qualità e dignità. “Aver bisogno di aiuto è una condizione di svantaggio destabilizzante, mentre chi aiuta per professione è in una condizione di vantaggio, quindi di potere, rispetto a chi riceve l'aiuto – riflette Bonanno - Questa condizione di potere del professionista aumenta a dismisura quando la prestazione viene fatta a domicilio. Pensate al disagio che si prova quando si è costretti ad aprire la porta ad amici o parenti, sapendo che la propria casa è in disordine o ci si trova in desabillè. Strano, a proposito, come la parola desabillè richiami il termine disabile. Ora immaginate questo disagio centuplicato, perché non solo siete costretti ad aprire ogni giorno la porta a degli estranei, ma addirittura dovete condividere ogni momento della propria quotidianità, come l'andare in bagno, il mangiare, il vestirvi o svestirvi, i vostri rituali e le vostre abitudini più intime con persone che a volte sono talmente consapevoli del loro ruolo di potere da diventare invadenti e perfino abusanti. Il lavoro di un professionista domiciliare è molto difficile proprio perché opera in un contesto fragilissimo, è come un elefante in una cristalleria. Un professionista domiciliare non può diventare abusante in un contesto di estrema fragilità connotato dal bisogno. Ed invece succede spesso fino a rappresentare un perfetto strumento di coercizione istituzionale – afferma ancora Bonanno - Ed è quello che io e mio figlio stiamo subendo da alcuni mesi – racconta - Ogni giorno mi trovo costretta ad aprire la porta a persone sempre diverse, il più delle volte, per fortuna, ottimi professionisti. Ma a volte arrivano persone così arroganti da sfiorare la violenza vera e propria. Alle mie rimostranze si risponde che la condizione di bisogno assistenziale elimina la scelta”. Ma proprio qui sta il problema, la possibile “trappola” dell'assistenza domiciliare: “Io non credo proprio sia legittimo il privare del diritto di scelta un individuo che ha necessità di assistenza. Io non credo proprio che sia legale privare un cittadino della sua autodeterminazione, nemmeno se è in una condizione di assoggettamento totale dovuto al suo bisogno di aiuto”.
Chiara Ludovisi