Itinerari. I monasteri dove non te li aspetti. L’altra Padova, che non c’è più

Quarta tappa degli itinerari tra “pietre e fede”. Dopo aver esplorato i Colli Euganei e il territorio a sud di Padova, è ora di fare il nostro ingresso a Padova città per scoprire il reticolo capillare di luoghi di fede che ancora oggi vive, seppur sotto mentite spoglie.

Itinerari. I monasteri dove non te li aspetti. L’altra Padova, che non c’è più

Senza far torto alla storia, alla devozione (non soltanto popolare) e pure alla fama, per una volta vale la pena guardare un’altra Padova, quella di spazi claustrali più appartati, spesso poco conosciuti, se non addirittura scomparsi o radicalmente mutati nella loro vocazione originaria. Lasciamo perdere, dunque, il Santo, Santa Giustina, il convento dove visse padre Leopoldo Mandić, la chiesa dei Servi, quella del Carmine e degli Eremitani, anche San Francesco Grande, dove nacque il primo ospedale cittadino (e non solo) e vissero i Minori Francescani. Guardiamo altrove. In Prato della Valle la prima scoperta della memoria. Tutti lo conoscono come ex Foro boario, non proprio un luogo di pregiata attività, ora ridotto a triste parcheggio. Eppure un tempo era sede privilegiata di uno dei più solidi monasteri femminili: Santa Maria della Misericordia, che qui nacque probabilmente tra i secoli 12° e 13°; soppresso nel 1810, non ne rimane traccia.

Le eremite nel cuore della città
Una folla di padovani e foresti che ogni giorno transita lungo quelle mura di pietra viva. Una strada, la Cavalletto, che da Prato della Valle conduce alla circonvallazione interna. Qui sta l’Eremo di San Bonaventura, dove da secoli vive una manciata di seguaci di Francesco e Chiara. Sono da sempre chiuse, rigidamente fedeli alla Regola, a tal punto che quasi nessuno, anche tra gli indigeni che vi transitano a fianco, sa che dietro a quella cinta di pietre, vi sono donne che hanno scelto Dio, il silenzio, il raccoglimento e soprattutto la preghiera.

Sotto la Specola
La Specola, la torre da dove si scrutavano le stelle, è punto di vista privilegiato, anche puntando lo sguardo non all’orizzonte, ma a quello che sta nei pressi, sottostante; qui sorsero primitivi cenobi femminili e dondolò la culla degli Albi. Il primo da ricordare è il monastero di canonichesse di San Pietro, che sta ancora dov’è nato (1026), non più conventus (soppresso nel 1810), ma vivo e disponibile nell’antica chiesa. Vicino prosperò un’altra comunità benedettina (1239), quella di San Prosdocimo (nella via omonima, prolungamento di quella dei Tadi), dove visse nel Quattrocento, la beata Eustochio Bellini; dopo vari utilizzi da parte dell’esercito, l’ex tempietto (la sola parte rimasta) ora è duomo dei Militari; l’edificio è stato riaperto nel 2020, al termine di un faticoso restauro.

La culla degli Albi
La riviera sotto la Specola ha uno storico pregio ecclesiale, palpabile in ciò che rimane: è stata il punto di avvio, di svezzamento, di un originale movimento di riforma della vita benedettina, riconducibile alla figura di Giordano Forzatè e ai suoi Albi. Lui, di nobile famiglia, un Transegaldi, era ormai insofferente a quel modo di vivere la vita consacrata e portare l’abito; nel 1224 il passo ufficiale: la richiesta al vescovo di dare vita all’Ordo Sancti Benedicti de Padua. Dapprima c’era San Benedetto Vecchio, probabilmente nato nel 1195, monastero doppio e tale rimase fino al 1259, quando i dissidi di genere tra le due comunità portarono alla divisione; dopo, alle religiose rimase la vecchia chiesa, costringendo i maschi a costruirsene una nuova (1267), San Benedetto Novello. Soppressi (1797) entrambi i monasteri, ripristinati due anni dopo, nel 1810 definitivamente chiusi. A fine Ottocento, a San Benedetto Nuovo si poterono trasferire le consacrate della Visitazione (Visitandine), rimasero fino al 2001, attualmente le quattro professe sono ospitate a Casa Madre Teresa di Calcutta di Sarmeola di Rubano. Meno glorioso l’epilogo di Benedetto Vecchio, che divenne caserma (Prandina), ora parcheggio.

Lo scempio di Sant’Agostino
Non è tutto; dalla Specola basta soltanto guardare in basso e ammirare (?) ciò che rimane di quello che è stato definito “uno dei più atroci scempi cittadini”: la vicenda di Sant’Agostino, chiesa e convento, è crudele. I Domenicani sbarcarono a Padova negli anni Venti del Duecento: trovarono posto lungo il Tronco Maestro, costruirono un nuovo tempio (1303), intitolato a Sant’Agostino, bello e maestoso, e un conventus. Dopo la cacciata dei frati da parte dei francesi, nel 1819 la chiesa fu rasa al suolo dagli austriaci, perché intralciava l’utilizzo militare di quegli spazi; il chiostro poi diventò un grande alloggio della cavalleria italiana, poi la celebre caserma Piave, destinata in futuro a essere un grande polo dell’ateneo cittadino.

Riviere bastarde
Tombinato il Naviglio (1960), hanno deciso di chiamare provocatoriamente “riviere” quelle larghe arterie che si insinuano nel centro più vitale di Padova. Tutto è durato qualche decina d’anni, giusto il tempo di accorgersi che quelle strade erano una ferita alla qualità della vita cittadina; adesso è più facile immaginare che cosa fossero queste vie, dedicate a Tito Livio ma anche ai Ponti Romani, quando ospitavano le acque e una concentrazione di luoghi sacri che si snodava per centinaia di metri. Là dove ora la questura sorveglia, infatti, vivevano le consacrate di Santa Chiara o Cella Nova; un po’ più in là, verso il centro (via del Padovanino), stava il benedettino (femminile) di San Giorgio, chiuso nel 1806, la chiesa ora è sede del teatro Ruzzante. Infine, Santo Stefano, antico e potente monastero femminile, che risaliva agli inizi del 11° secolo. Interamente ricostruito nella seconda metà del secolo 16°, confiscato nel 1810 e sulle sue ceneri hanno trovato vita il prestigioso liceo cittadino, il Tito Livio (1865), la prefettura (1852) e il palazzo della Provincia.

Azzeramento e riutilizzo
Il momento di rottura, l’evento che cambiò radicalmente la vicenda dei chiostri arrivò anche a Padova con il “nuovo ordine”, incarnato dalla calata di Napoleone; allora, agli inizi dell’Ottocento, la politica delle soppressioni fece strage, cancellando enti e comunità antichi di secoli. La domanda a questo punto è perfino scontata: cosa rimane di tutto ciò? Che fine hanno fatto tante pietre e storie, chiostri e chiese, spazi esistenziali di monache e consacrati? La risposta è semplice: vivono ancora alcune presenze e altrettante (innocenti?) provocazioni. Si può iniziare da quest’ultime; perché tali sono le vicende di consolidati luoghi di fede che nel tempo sono diventati altro, il più delle volte, quasi beffardamente in antitesi con i valori, i significati, le visioni della vita e del credere di cui erano custodi da secoli. Il perduto convento di San Bernardino da Siena De Observantia, tra le via San Biagio e Zabarella, ad esempio, era una ristretta comunità di Clarisse, che vivevano in estrema povertà; nel 1876 diventò la sede dell’Intendenza di Finanza e poi dell’Agenzia delle Entrate, per completare la sua parabola mondana nella destinazione a residenze di lusso. Non è andata meglio all’ex cenobio di San Marco, all’angolo tra Piazza Cavour e via 8 febbraio, cancellato ai primi dell’Ottocento e che oggi ospita la prestigiosa sede di un istituto di credito. Forse una provocazione meno stridente, ma pur sempre un travisamento, si coglie nei molti spazi di fede che sono diventati scuole o uffici di servizi pubblici. La comunità (agostiniana, domenicana, benedettina) di Sant’Anna, approdata dalle parti del Duomo, alla fine divenne scuola superiore (Istituto tecnico Belzoni); Sant’Antonio Abate e il suo ospedale, in quartiere Savonarola, fu demaniato dai francesi; dopo i gravi danni subiti nell’ultima guerra, nel 1953 l’antico convento venne restaurato e destinato a ospitare il collegio universitario Don Mazza. Nella stessa zona, all’incrocio tra le vie Cristofori e Savonarola (dove ora è aperta una farmacia), vi erano anche i Benedettini di San Leonardo; tutto abbattuto nel 1811. Sempre in questa porzione cittadina (via Wiel, di fronte al cimitero ebraico) stavano dal 1387 le Agostiniane, nel convento Mater Domini, già delle Convertite Vecchie; tutto azzerato in periodo napoleonico. Santa Maria degli Armeni, in via Belzoni, fu presenza basiliana, poi (1518) la cessione alle Clarisse di Santa Maria di Cella, la conversione a collegio femminile (1832), infine la destinazione a scuola. Quello che oggi è l’Istituto Camerini Rossi, in via Beato Pellegrino, «in capo alla contrada dell’Arzere», un tempo era dimora dei Crociferi, con annesso l’ospedale di Santa Maria Maddalena (1163). Il monastero del Beato Antonio Pellegrino fu fondato nella seconda metà del 16° secolo dalle Benedettine di Santa Maria di Porciglia. Dopo la soppressione francese, il chiostro fu inizialmente ridotto a caserma, in seguito passò alle suore Elisabettine, quindi casa di ricovero e ospedale geriatrico; ora è uno dei grandi poli formativi dell’università. È diventata un negozio invece la chiesetta di San Valentino (in via Beato Pellegrino 79), annessa all’antico convento di Santa Maria degli Angeli dell’omonima comunità dei Terziari francescani di Vicenza. Il romitorio di San Barnaba, nel Quattrocento, divenne dimora di una comunità di Eremiti di San Girolamo del beato Pietro da Pisa (Gerolimini), dando origine alle Maddalene (in via San Giovanni di Verdara), oggi istituto scolastico. Il cenobio di Ognissanti (Sant’Agnese), al Portello, già nel 1147 era in simbiosi con un ospedale gestito da chierici; estinto con decreto napoleonico, per molti anni, dal 1847, sede dell’Istituto degli Esposti, poi luogo di attività scolastiche e universitarie, mentre la chiesa restò parrocchiale. I travagli di Santa Maria in Vanzo, in via del Seminario, cominciarono un po’ prima dell’arrivo di Napoleone: era una comunità benedettina maschile (1218); il 21 marzo 1669 il monastero fu acquistato dal vescovo padovano Gregorio Barbarigo, che lo trasformò in seminario. I Domenicani Osservanti arrivarono in città alla fine del Quattrocento, stabilendosi al Bassanello. Dopo la distruzione del convento, i religiosi si trasferirono (1517) in località Vanzo, qui edificarono la chiesa di Santa Maria delle Grazie (quella ancora presente è del 1710). Del convento, demolito e sostituito da caseggiati moderni, non rimane nulla; il tempietto, chiuso al culto, è adibito a teatro e sala conferenze. Gli Umiliati stavano a San Francesco, vicino alla chiesa dei santi Simeone e Giuda, in via Altinate. L’esperienza terminò con la chiusura papale dell’Ordine (1571); la sede andò allora (1573) ai Teatini. Dopo le soppressioni ottocentesche, il grande complesso fu destinato a tribunale; nel 2008, con il trasferimento del tribunale stesso, l’ex convento è diventato sede del Centro culturale comunale San Gaetano. La chiesa di Santa Caterina d’Alessandria (via Cesare Battisti) esisteva già nel 1144. Più tardi fu affiancata da un monastero femminile (agostiniano); allontanate le monache, agli inizi dell’Ottocento, Santa Caterina divenne orfanotrofio e ridotto ad altre funzioni, per tornare a un rapporto privilegiato con l’ateneo, che ora ne utilizza gli spazi a fine didattico. A Padova, come in tutte le città venete, alcuni chiostri hanno dovuto subire l’antitetico destino di essere trasformati in ambiti militari o carceri. San Giovanni di Verdara era un cenobio benedettino doppio, risalente al 1221, passando poi ai Canonici Lateranensi di Santa Maria di Frigionaia (1430); soppresso dalla Serenissima (1783), fu adibito prima a brefotrofio; dal 1869 è ospedale militare. San Francesco di Paola, il “Paolotti”, in via Belzoni, era ricovero dell’Ordine degli Ospitalieri di Santo Spirito di Sassia. Nel Quattrocento vi stavano i Gesuati, poi i Minimi, che dedicarono il convento e la chiesa a San Francesco di Paola; confiscato nel 1806, passò al demanio e adattato a carcere; fino al 1966, quando fu raso al suolo e al suo posto fu costruita una struttura universitaria. San Bartolomeo (tra via Altinate e via Cassan) fu fondato nel 1527 da un gruppo di monache di San Benedetto di Montagnana; distrutto da un incendio (28 ottobre 1593), immediatamente ricostruito; soppresso nel 1797, divenendo, per tutto l’Ottocento, una caserma e poi sede di un’azienda municipale di servizi pubblici. Può bastare anche se non è tutto.

Toni Grossi
Giornalista

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