Il premio Strega al romanzo di Scurati ci aiuta a comprendere meglio le radici storiche di un malessere profondo
Alcuni fantasmi possono tornare. Non tanto per nostalgia di uno ieri che molti ignorano, ma per la mancanza di speranza da parte della gente, che non si sente più né rappresentata né capìta da una classe politica avvertita ormai estranea. Con il rischio che anche la democrazia diventi altrettanto estranea. E il “romanzo” di Scurati ci aiuta a capire le ragioni di ieri per cercare di salvare il nostro democratico oggi
Il vincitore dello Strega 2019 è Antonio Scurati, con il romanzo “M. Il figlio del secolo” (Bompiani). E non è cosa da poco. Perché stavolta il romanzo storico tenta di capire le ragioni della presa del potere del fascismo, il che non vuol dire giustificare il fascismo stesso. Il modo di “M” di “leggere” le ragioni di Mussolini non è fatto di simpatia o intellettualistica rimozione. L’intersezione dei pensieri del futuro duce fin dai tempi di San Sepolcro e della fondazione dei Fasci di combattimento nel 1919 con i rapporti di pubblica sicurezza, gli articoli di giornale e le altre voci del tempo (tra cui il D’Annunzio anticipatore di molte delle parole d’ordine del primo fascismo, in primis la “vittoria mutilata”) crea un ulteriore effetto apparentemente contraddittorio: la distanza dettata dal senno del poi di cent’anni, la comprensione dei giochi di potere nascosti anche nel non-dichiarato, la individuazione di quel mix di aspettative popolari, crisi economica, calcoli politici, indolenza della stessa classe politica e autoreferenzialità degli intellettuali democratici che portarono alla marcia su Roma.
Contraddittorio solo in apparenza, perché la storia non si presenta mai con chiarezza scolastica ai suoi attori e soprattutto non si ripete mai, nonostante la convinzione del suo eterno ritorno di uno dei padri -non si sa quanto ne sarebbe stato felice – dell’ideologia fascista, Nietzsche.
Questo è il merito del romanzo, che fa da seguito narrativo all’elaborazione critica del fascismo da parte di Renzo De Felice, accusato, da sinistra, di aver giustificato in qualche modo la dittatura. Un conto è comprendere i motivi, in vista della cura preventiva, un conto è giustificare un regime, cosa che mai fece De Felice. Come avviene con il romanzo di Scurati, che ci fa capire – e poi qualcuno continua a dire che leggere non serve – che l’attuale momento storico ha alcune cose in comune con il primo dopoguerra. Le cose sono cambiate dal 1919 e dal 1922, certamente. E però ci sono alcune, di queste cose, da analizzare bene, per evitare che con modi mutati e spesso apparentemente diversi se non opposti, possano farsi vive dinamiche che fanno della forza e dell’imposizione le nuove metodologie della lotta politica. Se la gente comune, che fa fatica ad arrivare al ventuno del mese -e talvolta proprio non ce la fa- pur facendo lavori pesanti e non gratificanti, vede continuità dinastiche in alcuni ambienti, quelli dei mass media, o delle università, tanto per non fare nomi, se la sinistra continua a offrire lo spettacolo di divisioni, di progetti di scissioni, di dibattiti spesso incomprensibili per disoccupati, quel che resta degli operai e soprattutto i giovani, se la classe colta continua ad essere autoreferenziale e non scende a tastare la pancia del popolo, se la scuola non la smette di essere la grande provincia burocratica che è diventata, per tornare a mettere al centro l’insegnamento, nella sua dimensione umana e libera, se le forze politiche che si sono autorappresentate come radicalmente diverse e in grado di cambiare il paese si rivelano impotenti a cambiare il sistema, allora alcuni fantasmi possono tornare.
Non tanto per nostalgia di uno ieri che molti ignorano, ma per la mancanza di speranza da parte della gente, che non si sente più né rappresentata né capìta da una classe politica avvertita ormai estranea. Con il rischio che anche la democrazia diventi altrettanto estranea.
E il “romanzo” di Scurati, che va dal 1919 al 1925, ci aiuta a capire le ragioni di ieri per cercare di salvare il nostro democratico oggi: lo fa con l’ausilio di voci narranti diverse, (che “costano” più di 800 pagine) ivi compresa quella dello stesso Mussolini, con uno stile mimetico, nel senso che è quello del tempo, declamatorio o ostentato, e qui forse è uno dei limiti del romanzo: la visione della scena da parte dello stesso protagonista è viziata dal senno del poi, come se l’ex direttore dell’Avanti fosse completamente immerso in una dimensione cinica, parossistica, lucidamente pessimistica e soprattutto già organizzata e bell’e pronta. Insomma un Mussolini visto, con i limiti che abbiamo detto, da fuori, da dentro, ma con gli occhi del periodo e non con quelli di un secolo dopo, anche se è inevitabile che la distanza temporale e il giudizio storico facciano il loro lavoro.
Marco Testi