Il Teatro del Pratello compie 20 anni: “Prima c’era molta più apertura, oggi siamo regrediti”
Si chiama “Teatro del Pratello. Vent’anni tra carcere e società” il libro di Massimo Marino dedicato al teatro dell’Istituto penale minorile di Bologna. Paolo Billi, storico direttore artistico dei progetti dell’Ipm ripercorre la sua storia: “Negli istituti si entra molto meno. Ho visto mutare profondamente anche le stagioni dei ragazzi”
BOLOGNA – “Il libro? Un pretesto per lanciare uno sguardo alle spalle del lavoro fatto proiettato al futuro”: Paolo Billi, storico direttore artistico dei progetti teatrali presso l’IPM di Bologna e il Centro giustizia minorile per l’Emilia-Romagna, riassume così il senso della pubblicazione “Teatro del Pratello. Vent’anni tra carcere e società. Testi processi spettacoli” del critico teatrale Massimo Marino.
Paolo Billi lavora in carcere dal 1999, prima con l’Associazione Bloom – culture teatri, poi con il Teatro del Pratello. Ha iniziato all’Istituto penale minorile di Bologna, poi ha portato le sue invenzioni nell’Area penale esterna bolognese e verso le scuole e la cittadinanza; quindi nella casa circondariale della Dozza; più di recente a Pontremoli, a Reggio Emilia, a Firenze. Ha fondato, con altre compagnie, il Coordinamento Teatro Carcere Emilia-Romagna. “Ma soprattutto – sottolinea Marino – ha cercato di far entrare adolescenti, insegnanti, operatori, spettatori nei luoghi di reclusione, in contatto con ragazzi e persone affidate alla giustizia: la società civile che permette di rompere l’isolamento dei luoghi di pena, perché sia chiaro che i processi di trasformazione che vi si svolgono, quelli artistici come il teatro e quelli della normale amministrazione, sono patrimonio della collettività. Tutto questo racconta il libro: una meravigliosa avventura ventennale a provare a reinventare la vita dai luoghi del dolore e dell’emarginazione”.
Il libro raccoglie documenti, recensioni, altri testi e contributi. È diviso in 20 capitoli, 20 “movimenti”: 20 come gli anni che si celebrano, ma attenzione, non è un percorso cronologico. Ogni capitolo è dedicato a un tema, a un filone, rimbalza tra le produzioni e tra l’interno dell’IPM e il mondo esterno. “Per me è fondamentale il sottotitolo – spiega Billi –: ‘tra carcere e società’. Sin dall’inizio ho mal sopportato la definizione di teatro-carcere, perché per me esiste solo il teatro-teatro, a prescindere dal luogo. Lavorare in carcere, poi, dà un valore aggiunto, perché il mio fare obbliga quello spazio a ripensarsi. Purtroppo, da qualche anno a questa parte è venuto a mancare quel senso di apertura che ci aveva contraddistinto nei primi anni della nostra esperienza”. Per un lungo periodo, infatti, il Teatro del Pratello prevedeva due mesi di repliche – novembre e dicembre – degli spettacoli della compagnia presso la chiesa dell’istituto, aperti al pubblico esterno. La chiesa, poi, è stata dichiarata inagibile: strutturalmente, è impossibile intervenire. Da quel momento le repliche sono diventate 4, d’estate, organizzate nel giardino della struttura: “È qualcosa di molto diverso da quello che era prima, quando riuscivamo a portare in carcere 1400, 1500 persone, per la metà studenti. Si entrava a vedere teatro, era anche un lavoro di educazione del pubblico, un modo per aprire le porte alla città. È anche vero che il Teatro Arena del Sole da 6 anni ospita le nostre produzioni con l’area penale esterna. Tutto si evolve”.
Billi, parlando di apertura-chiusura della città al carcere e viceversa parla di regressione: “Gli istituti si sono nuovamente chiusi, oggi si entra molto meno. Perché? Le motivazioni vanno ricercate nella società civile, nella politica. Il carcere non fa più notizia, se ne parla solo per denunciare le condizioni disumane di vita dei reclusi. In questo contesto, fortunatamente il teatro è una delle attività che resiste, seppure talvolta a fatica. Prima c’era tanta attenzione, tanta curiosità, oggi quasi lo si considera un impegno scontato, le amministrazioni si appuntano la stelletta al petto: il teatro in carcere non è routine, dovrebbe vivere del sangue delle persone recluse. La settimana prossima saremo in Dozza con lo spettacolo delle donne della sezione femminile: per loro non è un’attività qualsiasi, ma un momento di grande autoaffermazione. Il teatro vive di questo”. E aggiunge: “Oggi, per esempio, c’è la moda del cibo e della cucina, che già sta ammorbando tutte le nostre vite. Volterra, Milano, adesso anche la Brigata del Pratello. Che, sia chiaro, rispetto, ma interpreto come un impoverimento. Ora si entra in carcere per mangiare e bere un bicchiere, prima per fare cultura”.
E se in questi vent’anni Billi ha assistito a un cambiamento delle carceri, è testimone anche di una trasformazione dei giovani detenuti: “Ho visto mutare profondamente le stagioni dei ragazzi. Inizialmente incontravo soprattutto giovani sfortunati che non avevano avuto nulla dalla vita, erano soli e senza nessuna alternativa alla reclusione. Quindici anni fa fu la volta degli albanesi: insieme raccogliemmo molti frutti. Poi l’età si è alzata, prima di abbassarsi nuovamente in questi ultimi anni: oggi incrociamo tanti ragazzi italiani e giovani di seconda generazione. È tutto molto più complesso, le forme del disagio e della devianza sono legate alla situazione familiare. Sì, è tutto più difficile – ammette quasi tra sé e sé –: e poi, di fatto, io non sono un educatore in senso stretto ma sì, posso dire che il mio lavoro incide fortemente nei percorsi educativi”.
Ambra Notari