Disabilità e fotografia: “Tanti obiettivi puntati, ma forse è solo una moda”
La riflessione del direttore del Perugia Social Photo Fest, Antonello Turchetti: “La disabilità è uscita dall’ombra, ma io preferisco l’auto-narrazione”. Fino al 31 agosto aperta la partecipazione alla seconda edizione di Scatto inSuperAbile, il concorso fotografico indetto da Inail
“La rappresentazione fotografica della disabilità si inserisce in un contesto più ampio: da diversi anni stiamo ormai assistendo a una sovraesposizione di immagini, perché chiunque oggi può considerarsi fotografo”. Antonello Turchetti è fotografo e arte-terapeuta specializzato nell’uso della fotografia nelle relazioni di aiuto, cofondatore di Netfo.it e direttore del Perugia Social Photo Fest, la cui ultima edizione si è tenuta nel 2018.
Il rapporto fra disabilità e fotografia è centro in queste settimane della seconda edizione del concorso fotografico “Scatto inSuperAbile”, promosso da Inail e focalizzato in particolare sul tema disabilità e lavoro: il bando di concorso e tutte le informazioni per partecipare sono disponibili sul sito web dedicato (scadenza il 31 agosto). Con l’occasione, parlando a SuperAbile, il portale dell’Inail che promuove il concorso, Antonello Turchetti ha argomentato il suo punto di vista, come già avevano fatto il fotografo Fabio Moscatelli e il giornalista Stefano Trasatti. Ecco l’opinione di Turchetti, raccolta, come le precedenti, da Antonella Patete.
“Per spiegare questo fenomeno – argomento Turchetti – il fotografo spagnolo Joan Fontcuberta, nel volume “La furia delle immagini”, ha coniato l’espressione “homo fotograficus”, che riassume meglio di qualsiasi altro termine l’impatto sociale e culturale della fotografia nelle nostre vite: una bulimia delle immagini generata da quel bisogno impellente di raccontarsi, alimentato oggi dai social media. Gli adolescenti, per esempio, utilizzano soprattutto quei social dove, come in TikTok, l’immagine è predominante. All’interno di questa dimensione visiva, quasi per la legge dei grandi numeri, ha trovato spazio anche la rappresentazione della disabilità come necessità di raccontare questa particolare condizione e di raccontarsi, rompendo talvolta dei tabù”.
È un passo avanti rispetto al passato?
Sicuramente è un bene, ma temo che si tratti di una moda passeggera, legata a un particolare momento storico, e non di un’attitudine radicata. Come direttore del Perugia Social Photo Fest, nel giro di pochi anni ho visto crescere l’interesse nei confronti della disabilità, un tema quasi completamente assente nelle edizioni del 2012 e 2013 e poi, gradualmente, sempre più presente. In un certo senso il Festival ha fatto da apripista. Per esempio, l’edizione 2016 era dedicata alla cecità, cosa che potrebbe sembrare un ossimoro. Tra gli invitati c’erano tanti fotografi non vedenti, tra cui gli esponenti del Seeing With Photography Collective, un gruppo newyorkese con e senza disabilità visiva, e il noto fotografo cieco sloveno Evgen Bavcar. Col tempo, poi, sono cominciati ad arrivare sempre più lavori autobiografici riguardanti la disabilità, cosa che io trovo interessante soprattutto per quell’urgenza di mettersi in azione e raccontare sé stessi e la propria vita, assecondando un bisogno che appartiene da sempre al genere umano. In questo caso, tuttavia, si trattava di superare i propri pudori e reticenze, mettendosi a nudo per mostrare chi si è veramente.
Perché è così innovativo rivolgere l’obiettivo su sé stessi?
L’auto-narrazione comporta un passaggio non da poco, perché rivolge l’attenzione all’individuo come essere umano e non come disabile. Mette cioè in luce le abilità piuttosto che le mancanze. E anche se questo tipi di immagini spesso non riflettono i canoni estetici della fotografia, risultano sempre molto reali e veritiere. Anche un occhio esterno può raccontare un tema come la disabilità, ma negli ultimi anni sono rimasto colpito soprattutto da quei progetti di giovani fotografi e fotografe che hanno narrato la loro malattia attraverso la fotografia. Insomma, la disabilità sta finalmente uscendo dalla zona d’ombra nella quale era stata reclusa, ma fino a quando la cosa potrà andare avanti non lo so.
Entrando nello specifico della rappresentazione della disabilità, è soddisfatto dei lavori fotografici che vede in giro?
Avendo la fortuna di lavorare come terapeuta specializzato nella fotografia nell’ambito delle relazioni di aiuto, mi confronto con tanti progetti sull’auto-narrazione, dove non c’è divisione tra oggetto e soggetto della rappresentazione. E, come dicevo, questi progetti detengono una verità che difficilmente trova luogo nello sguardo del fotografo. Una cosa è certa, però: la fotografia richiede sensibilità, mentre troppo spesso si vedono immagini scontate, che cercano la lacrima facile, come quando la disabilità è raccontata in maniera greve, con una determinata scelta di luce e magari in bianco e nero, ricalcando quegli stereotipi già visti e rivisti. A volte, poi, la disabilità non è immediatamente individuabile e ciò richiede ancora più delicatezza da parte del fotografo. A me interessano soprattutto i lavori che nascono dall’interno o dalla cooperazione tra le parti, come “Life Force” di Constanza Portnoy che, nel 2018, ha si è aggiudicata uno dei premi del Perugia Social Photo Fest con un reportage su una famiglia argentina in cui entrambi i genitori erano disabili. Una storia di normalità, raccontata non solo con grande potenza narrativa, ma anche con estrema verità: al centro c’è lo sguardo di una bambina che vede papà e mamma e non due persone disabili. Insomma, in una situazione di enorme produzione di immagini come quella attuale, dove tutto sembra essere già stato raccontato, non è più importante il cosa, ma piuttosto il come e il perché.
C’è qualcosa che non è stato ancora sufficientemente rappresentato e che le piacerebbe invece vedere?
Sì, mi piacerebbe vedere dei lavori sulla sessualità delle persone disabili, perché è un argomento di cui non si parla poco, come d’altra parte accade anche per il tema dei caregiver familiari, che diamo sempre per scontato.