Dalle portinerie di quartiere agli empori solidali, ecco il quadro delle "Comunità intraprendenti" in Italia

La fotografia scattata dal rapporto Euricse, che ha individuato 9 tipologie di attività: Community Hub, Imprese di Comunità, Patti di collaborazione, Portinerie di quartiere, Empori Solidali, Comunità a Supporto dell’Agricoltura, Food Coop, Comunità Energetiche Rinnovabili e FabLab. I numeri e le analisi delle diverse fattispecie

Dalle portinerie di quartiere agli empori solidali, ecco il quadro delle "Comunità intraprendenti" in Italia

Il Rapporto Euricse sulle Comunità intraprendenti ha delineato nove tipologie di Comunità Intraprendenti: Community Hub; Imprese di Comunità; Patti di collaborazione; Portinerie di quartiere; Empori Solidali; Comunità a Supporto dell’Agricoltura; Food Coop; Comunità Energetiche Rinnovabili; FabLab. Ne abbiamo esaminate alcune.

Le portinerie di quartiere

Le Portinerie di quartiere sono dette anche Portinerie di comunità o Portierati di comunità. Un fenomeno che, pur essendo al momento ancora poco sviluppato in termini numerici, si sta progressivamente diffondendo negli ultimi anni anche in Italia, anche se in modo non omogeneo sul territorio nazionale.
“Si tratta di luoghi fisici, dotati di un’infrastruttura organizzativa e logistica leggera, dove si realizzano incontri, attività e scambi di disponibilità e competenze tra cittadini e organizzazioni della società civile che risiedono all’interno di un medesimo quartiere”, si afferma nel Rapporto.
Più nello specifico, le portinerie di quartiere sono spazi dove si favorisce lo scambio di piccoli favori, aiuti e servizi tra chi abita o lavora in un dato quartiere allo scopo di rispondere ai loro bisogni quotidiani, facilitare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, mettendo in comune prestazioni, competenze e informazioni. “La portineria di quartiere, inoltre, si pone come luogo centrale per la costruzione di quelle reti di relazioni necessarie a connettere i cittadini (siano essi o meno in stato di bisogno) con i servizi presenti sul territorio e con la comunità nel suo complesso – si precisa -. Ad essere cruciale in questa azione è la promozione dei valori della prossimità, della continuità e dell’accompagnamento, intesi come necessari per intraprendere un percorso di miglioramento della qualità della vita del singolo e, conseguentemente, del territorio di riferimento. Alla luce di ciò, appare evidente come una portineria di quartiere possa svolgere un’azione non solo sociale e culturale, ma anche economica e politica di notevole rilevanza, fortemente orientata, da un lato, alla diminuzione delle differenze e delle diseguaglianze sociali e, dall’altro, alla determinazione di nuovi modelli di welfare generativo e di comunità”.

Le potenzialità del modello delle portinerie di quartiere sono emerse con forza durante il periodo pandemico. Il lockdown e gli effetti sociali ed economici del Covid-19, infatti, hanno fatto riemergere con forza il valore strategico della collaborazione e del coinvolgimento attivo dei cittadini, mostrando come il benessere collettivo non debba intendersi come il risultato di una sommatoria di prestazioni, quanto piuttosto come frutto di una pluralità di comportamenti coerenti e responsabili.
La mappatura delle Portinerie di quartiere si concentra su 17 esperienze di Portinerie di quartiere intercettate dal Rapporto. Il campione è al momento distribuito in modo poco proporzionale sul territorio nazionale, con una maggiore presenza di realtà al Nord Italia rispetto che al Centro e al Sud.
In generale, essendo un fenomeno nuovo, le Portinerie di quartiere rappresentano solo il 3% delle Comunità Intraprendenti individuate dall’indagine.

La prima Portineria di quartiere, Lulu dans ma rue, nasce all’estero e precisamente a Parigi, nel quartiere Marais, nel 2015. Nel nostro Paese la prima Portineria di quartiere (Portineria 14) viene inaugurata un anno dopo, nel 2016, a Milano e da allora l’andamento nella costituzione di nuove esperienze è stato contenuto, ma costante. Ad oggi, numerose sono le realtà che stanno intraprendendo percorsi volti a strutturare servizi orientati al modello del portierato di comunità e ciò lascia sicuramente ipotizzare un ampliamento del fenomeno nei prossimi anni. Il modello delle Portinerie di quartiere si basa su due semplici elementi: la condivisione e la necessità di (ri)costruire legami fiduciari e rinnovate forme di socialità.
La regione con il numero attualmente più alto di Portinerie di quartiere è il Piemonte (5), seguito dalla Lombardia (3), dove è nata la prima Portineria di quartiere italiana (Portineria 14, Milano).
In termini generali, come accennato in precedenza, le Portinerie di quartiere svolgono una pluralità di attività: aiuto alle persone anziane, fornitura di contatti per lavori di manutenzione, recupero pacchi, annaffiamento piante, organizzazione di servizi a domicilio (baby-sitting, dogsitting, lavori di manutenzione, riparazioni), ecc… O ancora, il riferimento è a servizi di “sportello”: abitativo, occupazionale, di salute, scolastico, legale, di formazione e orientamento, così come di semplice ascolto.
“La principale attività svolta dalle Portinerie di quartiere può essere sintetizzata come un’azione di aggregazione e socialità – si afferma -. Esempi in questo senso sono rappresentati da: corsi di cucina, corsi di cucito, bar, bistrot, caffetteria, programmazione eventi culturali e musicali. La natura stessa delle Portinerie, infatti, fa sì che si pongano come luoghi di scambio, di relazione, di condivisione e partecipazione. Sono spazi di aggregazione aperti a tutti gli abitanti, finalizzati alla costruzione di reti di socialità, di solidarietà e di fiducia, per aumentare il capitale sociale e prevenire fenomeni di esclusione ed emarginazione sociale”.

Gli empori solidali

Nel 2020, secondo le stime rilasciate dall’Istat, il 9,4% della popolazione italiana si trovava in una condizione di povertà assoluta. Appare evidente come un simile dato debba necessariamente essere letto anche alla luce degli effetti prodotti dalla pandemia da Covid-19, in seguito alla quale un milione di persone in più rispetto al 2019 si trova a vivere in un significativo stato di privazione economica e sociale. Ciononostante, già nel 2018, il Primo Rapporto sugli Empori Solidali in Italia, firmato CSVnet e Caritas italiana, sosteneva che alla base della nascita e della diffusione degli Empori Solidali nel nostro Paese vi era sostanzialmente l’aumento del numero di individui e di famiglie in condizioni di estrema difficoltà.
È per rispondere a questo crescente bisogno che nascono, dunque, gli Empori Solidali, cioè dei piccoli market che distribuiscono beni di prima necessità (alimenti, indumenti, ecc.) in modo gratuito agli individui che si trovano in gravi difficoltà economiche.
L’approvvigionamento e l’individuazione dei beneficiari sono gestiti in rete con le realtà pubbliche e private del territorio: i beni sono forniti grazie a donazioni o acquisti, mentre i beneficiari sono individuati sia dai servizi sociali che da enti del Terzo Settore che operano nel contesto di riferimento. Ciò permette di garantire un elevato livello di conoscenza e condivisione del percorso di accesso e di permanenza dei soggetti beneficiari all’interno dell’emporio.
All’interno di questi negozi, i beneficiari possono scegliere liberamente i prodotti di cui hanno bisogno e che desiderano, ragion per cui il modello dell’Emporio Solidale si differenzia nettamente da altri servizi, quello del pacco alimentare o della raccolta e distribuzione di abiti, rivolti alle stesse tipologie di beneficiari. Infine, accanto al sostegno materiale, molte di queste realtà realizzano – anche se con gradi e modalità diverse – percorsi e servizi di socializzazione, inclusione, formazione e orientamento.

Più nel dettaglio, si tratta di servizi quali percorsi formativi, di orientamento al lavoro, così come di attività ed eventi sociali e culturali, spesso aperti alla cittadinanza nel suo complesso. Esempi in questo senso sono i laboratori di cucito, di bricolage, i corsi di cucina con gli avanzi del cibo per evitare gli sprechi alimentari, i laboratori per il risparmio energetico e quelli per la gestione del bilancio familiare, fino ad arrivare ad attività di aiuto e sostegno educativo per i minori.
Le attività realizzate all’interno degli Empori Solidali sono rese possibili dal lavoro di volontari che gestiscono non solo l’organizzazione del market (dall’approvvigionamento degli scaffali all’apertura dei locali in determinati giorni e fasce orarie), ma anche l’erogazione dei servizi aggiuntivi.

Gli Empori Solidali individuati dalla mappatura del Rapporto sono 193 e rappresentano il 28% del totale delle Comunità Intraprendenti mappate in tal sede. Gli anni che hanno visto un incremento importante di questo tipo di Comunità Intraprendente sono quelli dal 2013 al 2019.
Alla luce delle informazioni raccolte nella mappatura, gli Empori Solidali sono presenti in tutte le regioni italiane, ad eccezione del Molise. Guardando più nel dettaglio come essi si distribuiscono sul territorio nazionale, emerge come gli Empori Solidali siano un fenomeno nettamente più diffuso nel Nord del Paese, rispetto al Centro e al Sud. Il 54% degli Empori Solidali si trova al Nord, suddiviso equamente tra Nord-Est e Nord-Ovest, mentre il restante 46% è distribuito tra il Centro, dove il numero degli Empori è pari a 39, e il Sud, dove sono presenti 50 Empori Solidali.
Le Regioni in cui si registra un numero più elevato di Empori Solidali sono l’Emilia-Romagna (27), la Lombardia (23), il Veneto (19) e il Piemonte (18). Da sole, queste quattro regioni raggruppano il 45% del totale degli Empori Solidali individuati in tutto il Paese.

Le Food coop

Il rapporto Euricse evidenzia che sono numerose le pratiche che fanno parte delle esperienze di consumo di cibo critico e alternativo. Tra queste è possibile far rientrare anche il caso delle Food Coop. La Food Coop, che è possibile ritrovare nel contesto italiano sotto denominazioni quali “supermercato cooperativo”, “emporio autogestito”, “supermercato partecipativo”, “emporio di comunità”, è una particolare tipologia di cooperativa di consumo nata negli Stati Uniti nel contesto dei movimenti per la giustizia sociale e della cosiddetta controcultura, sviluppatisi attorno agli anni ‘70. “Accanto alle motivazioni di carattere economico e legate al benessere fisico, è importante considerare quelle di stampo politico, che vedono le Food Coop come modelli di consumo alternativi, improntati su sostenibilità ambientale, prezzi giusti per produttori e consumatori e, infine, che valorizzano filiere e produttori locali in contrapposizione alle logiche diffuse nella grande distribuzione organizzata e nelle multinazionali – si precisa -. Elementi, questi, che accomunano queste esperienze alle CSA”.
Uno dei principali elementi che caratterizza le Food Coop è l’elevato livello di mutualità al loro interno. Queste peculiari cooperative di consumo, infatti, sono aperte solo ai soci che sono al contempo proprietari, lavoratori-volontari e clienti della Food Coop. “Per diventare membri dei supermercati collaborativi e autogestiti è indispensabile, oltre al pagamento di una quota di adesione, anche impegnare circa tre ore di lavoro non retribuito ogni quattro settimane all’interno dell’organizzazione. L’attività lavorativa dei soci è fondamentale per il funzionamento e lo sviluppo della Food Coop e per assicurare prodotti di qualità – spesso biologici – ad un prezzo accessibile. Azzerando o limitando il costo della manodopera, che è tra gli elementi che incidono maggiormente sul prezzo finale dei prodotti, queste realtà applicano un ricarico basso (tra il 18% e il 25%) che viene utilizzato per coprire le spese relative ai costi fissi dell’attività. In cambio del lavoro volontario svolto nella Food Coop e della quota di adesione iniziale, i soci hanno la possibilità di essere molto più che semplici consumatori”.
All’interno della Food Coop, infatti, i soci diventano comproprietari e consumatori attivi che hanno la possibilità non solo di scegliere il cibo che desiderano sulla propria tavola, ma di selezionare quello presente sugli scaffali, consentendone l’acquisto a prezzi convenienti.

Il fenomeno Food Coop, come già accennato, si è sviluppato anche in Europa, seppur solo dal primo decennio degli anni 2000. La prima esperienza è stata quella di La Louve a Parigi, supermercato partecipativo fortemente ispirato all’esempio americano di Park Slope, seguito da Bees Coop di Bruxelles e altri casi nelle maggiori capitali europee. Sulla scia della domanda crescente di prodotti alimentari di qualità, locali, sostenibili e a prezzi giusti per produttori e consumatori, il modello Food Coop è approdato anche in Italia. Ad oggi le Food Coop ufficialmente costituite e operanti sul territorio italiano sono cinque (3 in Emilia Romagna, 1 in Sardegna e 1 in Toscana), rappresentando, quindi, solo l’1% delle Comunità Intraprendenti mappate.
Dall’indagine condotta, il fenomeno risulta comunque in espansione e altri supermercati cooperativi e partecipativi sono in cantiere in tutta Italia.
La prima Food Coop, Camilla - Emporio di Comunità, è stata costituita nel 2018 a Bologna, a questa sono seguite OltreFood a Parma e Mesa Noa a Cagliari, entrambe nel 2019, Stadera a Ravenna nel 2020 e, infine, Le vie dell’Orto a Grosseto nel 2021.
“Senza dubbio il modello Food Coop sta riscuotendo sempre più interesse - si afferma nel rapporto -. Nel nostro Paese, il cibo, che da sempre rappresenta un elemento anche dal forte valore identitario, viene via via considerato anche in chiave salutistica, a conferma del cosiddetto ‘quality turn’ da cui sembrano interessate le tendenze agli acquisti dei consumatori”.

I community hub

“E’ possibile inquadrare i Community Hub come luoghi ibridi, polivalenti, contenitori di attività variegate e attori sociali diversi, in cui si sviluppano, a partire dalle necessità locali, servizi per la comunità attraverso la sua partecipazione attiva in un’ottica di co-creazione e abilitazione di progettualità”.
I Community Hub, dunque, non sono solo luoghi in cui vengono creati servizi a misura di una specifica comunità attraverso forme di imprenditoria sociale, ma rappresentano veri e propri hub di sviluppo economico, sociale e culturale delle comunità in cui nascono. Pur mantenendo alcune caratteristiche in comune, i Community Hub possono assumere molteplici forme, essendo entità che sorgono nei contesti più vari, con funzioni diverse e che propongono attività eterogenee rivolte a molteplici fasce di soggetti adattandosi ai bisogni locali. Inoltre, funzioni e attività possono cambiare nel tempo per rispondere alle istanze in evoluzione dei cittadini.

Tra gli elementi che li contraddistinguono, le differenti esperienze di Community Hub condividono il carattere di prossimità e radicamento sul territorio, gli obiettivi di inclusione sociale, l’abilità di fare impresa/creare lavoro, la varietà d’usi degli spazi che li compongono. Questi elementi si rintracciano nelle tipologie di attività che possono avere luogo all’interno dei Community Hub: servizi di welfare, attività per bambini e ragazzi, eventi e proposte culturali e di formazione, attività a elevato impatto sociale e orientate alla creazione di impresa, alla produzione e al lavoro, “dove l’artigiano convive con la postazione per il giovane creativo, la start-up e la cooperativa sociale, il coworking, il fab-lab, l’asilo, la caffetteria e la web radio”.
La mappatura presentata in questa sede propone un’analisi che si concentra su 34 Community Hub intercettati in Italia. Il campione è distribuito su tutto il territorio nazionale e descrive esperienze estremamente differenti tra loro sia in riferimento alle dimensioni, ai soggetti gestori, sia – soprattutto – alle attività svolte.
I Community Hub risultano essere un fenomeno ampiamente più sviluppato nel Nord del Paese, a discapito del Centro e del Sud. Tuttavia, va notato che, se la maggior parte di queste esperienze è concentrata al Nord e, nello specifico nel Nord-Ovest (19), al secondo posto nella distribuzione geografica si trova invece il Sud del Paese (8), dove si registra un numero maggiore di Community Hub rispetto al Nord-Est (6) e al Centro (1).

“Definire esattamente le attività svolte dai Community Hub a favore della comunità di riferimento, è impresa ardua – sottolinea il rapporto -. Essi, infatti, sono spazi ibridi all’interno dei quali si realizzano attività estremamente diverse, suscettibili di variare al modificarsi dei bisogni e delle esigenze della popolazione locale. Ciononostante, in tale sede risulta indispensabile tentare di individuare i principali settori di attività che contraddistinguono l’azione dei Community Hub sul territorio nazionale. Pur trattandosi di una generalizzazione, questa permette di comprendere quali sono le macro-aree di mission e vocazione su cui queste realtà si concentrano. Pertanto, l’estrema varietà di attività svolta dai Community Hub è stata sintetizzata in sei macro categorie: co-working: l’attività principale del Community Hub consiste nella messa a disposizione di aree e spazi adeguati allo svolgimento di attività lavorative, individuali e/o collettive, al fine di favorire la socializzazione e lo scambio di idee in ottica di incubatore; aggregazione e socialità: l’attività principale del Community Hub consiste nella messa a disposizione di spazi che possano incentivare l’aggregazione e la socialità tra i soggetti che frequentano lo spazio stesso. In queste realtà, infatti, si trovano spesso caffè e aree ristoro dove la comunità, senza distinzioni generazionali, si riunisce per le più svariate ragioni; welfare: l’attività principale del Community Hub consiste nell’erogazione di servizi di welfare per la comunità di riferimento. Si tratta per lo più di servizi a supporto di quelli erogati a livello comunale, come sportelli di consulenza, sportelli di accoglienza, sportelli di ascolto e di ricerca lavoro per i soggetti fragili, oppure di servizi a sostegno di alcune fasce della popolazione, come il servizio baby-sitting o di dopo-scuola; cultura: l’attività principale del Community Hub consiste nella promozione e nell’organizzazione di eventi culturali per e con la comunità. In questo caso, le attività spaziano dai cineforum ai concerti dal vivo, dalla presentazione di libri all’organizzazione di rappresentazioni teatrali, dall’organizzazione di corsi di danza, fotografia, teatro, ecc., all’allestimento di mostre; rigenerazione urbana: l’attività principale del Community Hub consiste nella trasformazione di aree urbane dismesse in spazi pubblici di aggregazione e socialità. Un simile obiettivo è stimolato e raggiunto attraverso pratiche differenti: dalle passeggiate urbane alla costruzione di musei urbani, sempre attraverso la tecnica della progettazione partecipata. educazione: l’attività principale del Community Hub consiste nell’erogazione di servizi di carattere educativo, sia formali che informali. In questo caso, il suo obiettivo principale si traduce con il contrasto alla povertà educativa per ogni fascia d’età. Agli spazi per l’infanzia si aggiungono le attività di educazione e formazione per i giovani e per gli adulti.

Daniele Iacopini

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)