Dalla poesia alla canzone: il cammino della bellezza. La saggistica è talvolta salvifica per proporci nuove strade, proficue letture
La tanto -a torto- temuta saggistica ci aiuta in realtà a capire non solo le opere e i loro autori, ma anche il loro tempo, le mode, il coraggio di oltrepassarle, l’amore, le incertezze, le umane delusioni.
La tanto -a torto- temuta saggistica ci aiuta in realtà a capire non solo le opere e i loro autori, ma anche il loro tempo, le mode, il coraggio di oltrepassarle, l’amore, le incertezze, le umane delusioni. E il richiamo della fede. Anche per questo La voce della Sibilla, di Filippo Tuena (Il Saggiatore, 267 pagine, 19 euro) è utile a tanti: maturandi, coloro che sceglieranno facoltà umanistiche, ma anche tutti quelli che amano la grande poesia non solo europea. Senza contare che ci aiuta a festeggiare i cento anni de La terra desolata, di cui abbiamo già parlato in questa rubrica. Perché Eliot, come Pound, di cui si parla qui, era nato negli Usa, per poi girovagare per l’Europa e stabilirsi in modo stabile nella Londra delle banche -spina nel fianco dell’autore della Terra desolata, ci lavorò per anni, con grande pena- ma anche del circolo esclusivo di Virginia Woolf, che pubblicò tra l’altro il suo capolavoro. Un libro, questo di Tuena, che narra, rivolgendosi ad un tu che è l’altro-sé autoriale, la nascita di una amicizia, quella tra Pound e Eliot che sarà ricordata nella storia della letteratura. Perché quella Waste Land (la terra “guasta” che Tuena giustamente rimanda anche al “paese guasto” del XIV del Purgatorio) deve paradossalmente tutto a Pound, “il miglior fabbro” come lo chiamò in dedica Eliot citando ancora una volta l’Alighieri purgatoriale. I suoi tagli, dolorosi per l’autore, ma anche il suo meravigliato, profetico, apprezzamento, fecero sì che in rivista e poi in volume nel 1922 nascesse uno dei capolavori d’occidente, in grado di narrare poeticamente la crisi dell’uomo raziocinante e la sua ricerca di qualcosa che andasse oltre la materia e il suo consumarsi. Una ricerca che porterà inevitabilmente Eliot su altre sponde, quelle della fede, lontano dal miglior fabbro che, trasferitosi in Italia, stava andando incontro alla sirena del fascismo.
La prova provata che la saggistica è talvolta salvifica per proporci nuove strade, proficue letture, altri modi di vedere il mondo è che il libro di Tuena ci fa riflettere su quanto Eliot abbia inconsapevolmente fatto per traghettare le Scritture perfino nella “canzonetta”. Ci riferiamo al fatto che una sua poesia, uscita in volume nel 1915, “Il canto d’amore di J. A. Prufrock”, sia in parte la ripresa di un passo dell’Ecclesiaste, quello di “il suo tempo per ogni cosa sotto il cielo. (…) un tempo per stracciare e un tempo per cucire (…) un tempo per amare e un tempo per odiare”. Eliot scrive che “ci sarà un tempo per uccidere e creare” per poi chiudere la strofa con un “Ho misurato la mia vita con cucchiaini di caffè”. Bene, agli albori dei contestatori anni Sessanta, un cantautore che partecipava alle marce per la pace in Vietnam, Pete Seeger cantava nella sua “Turn turn turn” che “c’è un tempo d’amore, un tempo d’odio, un tempo di guerra, un tempo di pace”, continuando poi in una fedele catena citazionale dell’Ecclesiaste. Ma non finisce qui, tanto è il fascino della Bibbia e della grande poesia: negli anni Settanta, il gruppo rock sinfonico degli Osanna esegue una creazione di Luis Enrique Bacalov, la canzone, anzi, letteralmente “Canzona”, alla maniera medioevale, come recita il sottotitolo, “There will be time”, che è una continua citazione dell’Ecclesiaste e di Eliot: “Ci sarà tempo per morire e per creare (…) Ho passato interminabili pomeriggi contando i miei giorni con i cucchiaini di caffè”. E in questa parte della rubrica di consigli per le letture estive vi consiglieremo anche letture meno pesanti e impegnative, in apparenza: quelle dei testi delle canzoni che hanno coniugato bellezza e profondità.
Se vogliamo rispettare gli anniversari, è il caso di Lucio Dalla e Roberto Roversi, scomparsi dieci anni fa, che ci hanno donato tra i più bei dischi della musica italiana. Lasciando nei nostri giradischi, come si usava allora, autentici capolavori, tre Lp, dal 1973 al ’76: Il giorno aveva cinque teste, Anidride Solforosa, Automobili. C’era di tutto, un tutto che voleva significare sguardo sull’emigrazione, sul dolore, sulla solitudine, sull’indifferenza e sui miti del materialismo rampante. Rivelandoci, come l’Ecclesiaste ed Eliot, che nulla è veramente nuovo: “S’alza il sole sui monti/ e sono arrivato in Germania/ cala il sole sull’acqua/ e sono in una baracca disteso/ al buio con un vecchio maglione addosso/ e una lampada che non funziona”.
Se il caldo asfissiante di questi giorni estivi ci dovesse far ripiegare su letture più brevi, anche per il loro essere tutt’uno con la musica, come potremmo non suggerire un brano dei New Trolls, (la scomparsa del loro storico cofondatore, Vittorio De Scalzi ha di nuovo rattristato le cronache recenti), “La prima goccia bagna il viso”, -pur essendo del 1971 sembra scritto ora-, che è una preghiera perché Dio mandi la pioggia in una terra desolata, tanto per ritornare ad Eliot: “Tu che di lassù guardi il mondo che gira intorno a sé/ Tu che puoi guidare il sole, il mare/ lascia che la pioggia scenda giù”.
Se si vuole accendere di un bagliore di bellezza e genialità in un pomeriggio pigro d’estate, come non cercare sui canali digitali Bob Dylan, un menestrello che del rapporto con la letteratura ha fatto il suo motivo d’essere, fino a vincere il Nobel nel 2016? In tempi insospettabili, primi anni Sessanta, anche lui, come Seeger, con la sua chitarra affascinava le folle in marcia per la pace, cantando parole che sarebbero rimaste nei libri di scuola (chi lo avrebbe mai sospettato allora?) come “Blowing in the wind”, con l’ormai celebre, ma profetico “Quante strade deve percorrere un uomo/ prima di poterlo chiamare un uomo (…) e quante volte devono volare le palle di cannone/ prima di essere proibite per sempre?”.
Nessun problema neanche a trovare sul cellulare, sotto l’ombrellone o in una stanza in penombra per difendersi dal sole, “L’angelo di Lyon”, cantata da Francesco De Gregori ma in realtà scritta da Steve Young e Tom Russel, realizzata nella nostra lingua dal fratello di Francesco, Luigi Grechi: la storia di un uomo ricco che dopo aver avuto “la visione di Anna Maria con il rosario tra le dita” decide di cambiare vita per inseguire quella visione fino alla dimenticanza del sé di prima. Da brividi.
E visto che siamo in ambito romano, un consiglio fraterno: una delle canzoni più belle di Venditti, “Il treno delle sette”, nell’album Le cose della vita, parla di una donna che si arrangia a lavorare facendo pulizie nelle case dei ricchi (“la signora è tanto buona, mi permette di parlare”) e che guarda fuori dal finestrino del treno che la sta portando al lavoro, sperando che alla figlia vada meglio, perché “col vestito della sera/ ho comprato tanti libri”.
Per non dimenticare le radici della nuova era musicale, riascoltiamo i Beatles, che hanno avuto il coraggio di affrontare la fede, il dolore, la fuga nei loro testi. E la solitudine degli anziani, come nel caso di “Eleanor Rigby”, che nel 1966 rivelò l’altra faccia degli scatenati baronetti beat: una donna sola raccoglie il riso nelle chiese dove sono avvenuti i matrimoni, un sacerdote anche lui solo scrive parole “di un sermone che nessuno ascolterà”. E il ritornello si chiede dove mai se ne vada la gente sola, se c’è un luogo cui essa possa stare. Una bella scossa in un periodo che somiglia molto al nostro, in cui l’immagine era ed è tutto, e pazienza per chi non ce la fa. E che in tempi di vacanza ci fa riflettere su quanti, non solo anziani, rimangono da soli.
La riflessione della canzone si spinge anche sul terreno religioso, anche se in “Hallelujah” di Leonard Cohen le citazioni bibliche si fondono con la presenza di un tu; un tu che in un altro suo capolavoro, “Joan of Arc”, è il fuoco: “I’m fire”, dice a Giovanna, e “amo la tua solitudine, amo il tuo orgoglio”.
Se vogliamo rimanere nel campo della religiosità, più o meno ortodossa, nella canzone, non si può non riascoltare il Battiato di “Lode all’Inviolato”, ispirata allo studio del sufismo e del pensiero mistico di Gurdjieff, o di “La cura”, in cui il divino si manifesta nell’amore per la sua creatura, con un passaggio graduale e profondo di partecipazione al cammino dell’altro.
Vera poesia è anche quella di una canzone che ha avuto un buon successo dei primi anni Settanta: “Vincent” di Don McLean parla infatti di van Gogh, della sua solitudine e della sua grande sensibilità, con delle parole davvero commoventi: “perché non riuscivano ad amarti,/ eppure il tuo amore era sincero (…) questo mondo non è mai stato abbastanza/ per una persona così bella come te”.
E con un richiamo anch’esso precocissimo, prima metà dei Sessanta, Simon e Garfunkel ci ammonivano a non lasciarci catturare da un consumismo privo di vita: la strofa finale del loro capolavoro, “The sound of silence” è da brividi:
e la gente si inchinava e pregava
al Dio neon che aveva creato.
E l’insegna proiettò il suo avvertimento,
tra le parole che stava delineando.
E l’insegna disse: “le parole dei profeti
sono scritte sui muri delle metropolitane
e sulle pareti dei caseggiati.”
E sussurrò nel suono del silenzio.
Quando la bellezza della cultura e della musica può aiutarci nel cammino, anche in solitudine, nelle lunghe e assolate ore d’estate. Ovunque siamo.