Anziani, ripensare i servizi: “L’isolamento? Quanto di peggio ci possa essere”

Riorganizzare le strutture per gli anziani alla luce dell’emergenza sanitaria. È questo l’obiettivo di una ricerca condotta dall’Università Cattolica per Fnp Cisl Emilia-Romagna: “Puntare su domiciliarità e servizi intermedi e mettere al centro le relazioni”

Anziani, ripensare i servizi: “L’isolamento? Quanto di peggio ci possa essere”

Qual è stato l’impatto sociale dell’epidemia sulle persone fragili e sui servizi socio-assistenziali? Quali sono le conseguenze del distanziamento e delle misure di protezione sulle persone anziane, sui loro caregiver e sugli operatori delle strutture protette, rivelatesi l’anello debole della catena, deputate alla protezione delle persone accolte e, al contempo, fonte di contagio? Sono queste le domande a cui prova a rispondere l’analisi “Ripensare i servizi per anziani in Emilia-Romagna. L’impatto sociale del Covid-19 sulle strutture protette” commissionato da Fnp Cisl Emilia-Romagna al Centro di ricerca Relational Social Work dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. “L’impatto sanitario sugli ospiti – spiega Loris Cavalletti, segretario generale regionale Fnp Cisl – è, come ben sappiamo, dirompente, ma le conseguenze dell’epidemia vanno oltre i dati, seppur fondamentali, relativi al numero di contagi. I risultati di questa ricerca ci permettono di cominciare a delineare linee di intervento e programmazione che tengano conto del mutato scenario conseguente all’epidemia”. Sette le strutture coinvolte nell’indagine – condotta questa estate, quindi prima della seconda ondata autunnale –, scelte rispetto alle caratteristiche della comunità locale di riferimento (città grande, città media, paese/zona rurale), alla numerosità dei contagi degli ospiti e – dove possibile – degli operatori, sia rispetto alle dimensioni della struttura. “Il primo elemento che attraversa tutte le interviste è il vissuto iniziale di disorientamento, confusione e paura – si legge nello studio –. Colpisce che l’immagine del ‘nemico invisibile’ sia stata utilizzata da uno degli ospiti e, al contempo, da un dirigente Asp: tutti si sono sentiti smarriti, senza certezze, in balia degli eventi. Soprattutto all’inizio c’è stata davvero la consapevolezza di stare combattendo contro la morte, propria e altrui, spesso a mani nude”.

Le riorganizzazione delle strutture: da case aperte al territorio a reparti ospedalieri? 

L’immagine delle strutture che emerge dalle descrizioni di tutti, soprattutto dei parenti, è quella di organizzazioni molto familiari, organizzate in modo da garantire una dimensione relazionale intima, ma, al contempo, aperta al territorio. “Il cambiamento delle condizioni è stato repentino e per gli ospiti si tratta di fare i conti con una situazione di isolamento che si potrà attenuare, ma difficilmente potrà essere cancellata del tutto”. Sì, allora a spazi di compartimentazione per isolare gli ospiti contagiati, aree all’aperto, finestre al piano terra per agevolare l’incontro con i parenti. La necessità di concentrare l’attenzione sulla cura della salute degli ospiti, anche riconfigurando parte delle strutture come reparti Covid ha sollevato, negli operatori in particolare, il timore di ridurre l’assistenza a un 'insieme di operazioni meccaniche', esclusivamente finalizzate a far fronte alle esigenze sanitarie e di accudimento fisico. “Emerge ancora una volta l’esigenza di lavorare insieme agli operatori per definire la loro identità professionale, attraverso percorsi formativi e di supervisione professionale”.

La comunicazione con i familiari, con gli ospiti e il principio di autodeterminazione

Tra i punti critici emersi, anche la comunicazione con i familiari, difficoltosa soprattutto nella fase iniziale. Il suggerimento del Centro di ricerca è quello di dedicare personale alla cura solo a questo aspetto, sin dai primissimi momenti di emergenza. “In generale, le famiglie mostrano di aver compreso la situazione di emergenza e di avere apprezzato l’impegno e gli sforzi messi in campo da parte degli operatori. Avere la possibilità di effettuare le video chiamate, ricevere informazioni tempestive e trovare risposta nel momento in cui si telefona, sono apparsi elementi determinanti per tranquillizzare le famiglie”. Complessa anche la comunicazione con gli ospiti: i residenti più lucidi hanno sottolineato l’importanza di essere informati correttamente, anche attraverso la televisione e i giornali. “Tuttavia, da parte di alcuni coordinatori è emersa la volontà di proteggere gli ospiti da un eccesso di notizie, per evitare che si spaventassero o si deprimessero. È evidente, più in generale, come l’emergenza sanitaria abbia costretto i responsabili a prendere decisioni che hanno inciso sugli ospiti in maniera unilaterale, senza considerare il loro punto di vista. In una situazione di emergenza questo è inevitabile, tuttavia appare una questione su cui riflettere. Il principio di autodeterminazione non può essere trascurato. In prospettiva, potrebbe essere opportuno riflettere su come strutturare percorsi maggiormente individualizzati, che tengano conto della situazione contingente di ciascun ospite, sia rispetto ai rapporti coi familiari, sia nell’organizzazione degli spazi, in modo da riuscire a cogliere e a prendere in considerazione il più possibile i desideri di ciascuno”.

Isolamento, deperimento, fine vita e solitudine

“L’isolamento? Quanto di peggio ci possa essere, sia su un piano psicologico, sia della perdita di autonomie delle persone anziane”: è questa la lettura condivisa dagli operatori che, come alcuni coordinatori, hanno descritto vissuti depressivi. Alcuni ospiti si sono lasciati andare, hanno smesso di mangiare e si sono spenti lentamente. “Sarebbe importante esplorare meglio l’ipotesi che il Covid-19 abbia indirettamente portato a un incremento dei decessi anche in anziani che non hanno contratto il virus”. Quello che è certo, è che i responsabili delle strutture si sono trovati di fronte scelte delicate: “Un aspetto particolarmente critico, sottolineato a tutti i livelli, è stato quello della gestione delle persone con demenza, in particolare quando presentavano tendenza al wandering. In alcune situazioni è stato necessario fare ricorso alla contenzione per evitare che si contagiassero o diffondessero il contagio. Anche su questi temi può essere molto utile aprire tavoli di confronto”. L’altro aspetto che ha sollecitato con forza una riflessione è quello relativo al fine vita. “L’emergenza sanitaria ha costretto a impedire ai parenti di accompagnare i propri familiari nel momento del trapasso e ha anche impedito ogni tipo di ritualità, compreso il funerale. Alcuni coordinatori si sono interrogati sulla possibilità di concedere ai familiari la possibilità di entrare per un ultimo saluto. È importante riflettere su percorsi/protocolli che possano consentire ai familiari di accompagnare i propri cari nel momento del decesso, ad esempio allestendo una camera ardente che si affaccia sull’esterno”.

Il ruolo centrale degli operatori

Una parte dell’analisi è dedicata agli operatori: vissuti molto pesanti, a tratti fortemente traumatici affrontati anche – ma non sempre e non ovunque – anche con un supporto psicologico messo a disposizione della struttura. Aspetto, questo, che i ricercatori suggeriscono di implementare, anche in chiave collettiva. “Il sostegno psicologico e la supervisione dovrebbero accompagnare i professionisti non soltanto in tempo di emergenza, dal momento che le professioni di cura richiedono un costante confronto con la sofferenza e la morte”, si legge. Il Centro di ricerca, alla luce delle interviste, invita le istituzioni anche all’apertura di una riflessione sulle condizioni contrattuali ed economiche degli operatori che lavorano nelle strutture protette, spesso in condizioni analoghe ai professionisti della sanità, ma con inquadramenti molto differenti. “A questo va aggiunto un altro dato: quello della trasversale grande disponibilità e flessibilità da parte degli operatori, che hanno affrontato con un enorme senso di responsabilità l’impegno richiesto. In pandemia gli operatori hanno acquisito notevoli abilità e competenze nella gestione concreta delle situazioni. Occorre, quindi, conoscere, valorizzare e mettere a sistema tutte le capacità apprese”.

La cura del futuro: domiciliarità, case alloggio, residenze sanitarie

Riflettendo, infine, in prospettiva, tutti gli intervistati hanno convenuto sull’inadeguatezza dell’attuale assetto delle residenze socio-sanitarie, molte delle quali progettate e costruite quando il contesto e i bisogni erano molto diversi. L’invito è a investire, oltre che sulle cra, sulla domiciliarità, sui servizi intermedi – come case alloggio e mini-appartamenti assistiti che alleggeriscano il carico domiciliare ma lascino ancora ampi margini di autonomia agli anziani – sulle residenze sanitarie, più piccole e più ‘case’ di quanto siano ora.

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Fonte: Redattore sociale (www.redattoresociale.it)