Alla ricerca del Dio di Pirandello. A cent’anni dai “Sei personaggi in cerca d’autore”
Come ha intuito un grande critico che ha indagato la letteratura anche alla luce della psicoanalisi, Giacomo Debenedetti, l’arte pirandelliana potrebbe essere un’astuzia della Provvidenza.
“Tutta codesta filosofia che scopre la bestia e poi la vuol salvare, scusate…” La Figliastra dei “Sei personaggi in cerca d’autore” mette a nudo l’inutilità, peggio, “lo schifo di tutte codeste codificazioni intellettuali” che non riescono a dire, capire, comunicare il senso della vita, perché quella vita è un fluire continuo, come insegnava il filosofo Henri Bergson, che Pirandello conosceva bene. Rappresentata per la prima volta al Teatro Valle di Roma il 10 maggio di cent’anni fa, quella che è forse la più celebre commedia del siciliano, scatenò, in sala e fuori, una rissa tra i fischiatori, i contestatori e i fautori del nuovo teatro pirandelliano. Il tutto alla presenza dell’autore. Che, a pensarci bene, aveva raggiunto, senza forse volerlo, uno dei suoi scopi: rivelare come la vita sia altra cosa dalla forma, qualcosa che non è possibile regolamentare e rappresentare. Neanche a teatro, dove si possono, appunto, creare personaggi che chiedono prima di essere rappresentati da altri, gli attori, e poi, vista la non corrispondenza tra arte e vita, di recitare se stessi. Il che però non è più forma, ma accadere imprevedibile. Negazione dell’arte, se si guarda fino in fondo l’abisso pirandelliano, che nello stesso tempo ci ha lasciato capolavori non solo teatrali, basti pensare al “Fu Mattia Pascal”, a “Uno, nessuno e centomila”, o ad alcuni racconti dove la ricerca di questo senso emerge implacabile.
E questa ricerca non esclude Dio, perché, come ha intuito un grande critico che ha indagato la letteratura anche alla luce della psicoanalisi, Giacomo Debenedetti, l’arte pirandelliana potrebbe essere un’astuzia della Provvidenza. Anche se non si volesse dare a questa Provvidenza un senso immediatamente religioso, ma quello di destino, come nella Grecia antica, le cose si fanno assai complesse ed affascinanti. In un suo antico studio, (“Pirandello. Le maschere del ‘Vecchio Dio’”, Edizioni Messaggero Padova, 2002), Franco Zangrilli ha messo bene in evidenza come la ricerca di senso in Pirandello investa anche l’elemento religioso. Soprattutto nei racconti emerge una religiosità non solo negativa, quella di preti o laici avidi o freddi o dediti solo alla forma esteriore: in “Fede”, o in “Dono della Vergine Maria”, in “Canta l’epistola”, in “Padron Dio”, ma anche in alcuni passi, soprattutto quelli finali di “Uno, nessuno e centomila” è evidente una ricerca di senso che non è immediatamente riferibile agli insegnamenti ecclesiali (Pirandello sosteneva spesso di non essere assolutamente in conflitto con la Chiesa, anzi) ma che è sorprendentemente vicina all’esempio di san Francesco d’Assisi. E soprattutto lontana dall’assolutismo materialista e deterministico del Positivismo. Molti personaggi sono colti nell’atto di stendersi in terra a contemplare le stelle o i fili d’erba, o nella scelta di rinunziare agli agi per coltivare la campagna, o a vagare per le strade abbracciando la povertà. E non c’è chi non abbia notato, a ragione, alcune somiglianze tra la spoliazione del Poverello, un tempo un ricco e gaudente ragazzo, e quella di alcuni personaggi pirandelliani, soprattutto il Vitangelo Moscarda di “Uno, nessuno e centomila”, che rinuncia alla ricchezza accumulata dal padre, con il sospetto di usura, viene chiamato in causa di fronte alle autorità, si appella al vescovo, si spoglia dei suoi vecchi abiti per diventare un povero, cambia radicalmente vita per partecipare al ciclo vitale della natura. Le analogie con la scelta dell’assisiate sono sotto gli occhi di tutti. Per alcuni questa celebrazione del creato ha sfumature panteistiche o vitalistiche, ma nel campo dell’arte il genio percorre strade spesso non immediatamente allineate con l’ortodossia, e se è per questo anche alcuni momenti dell’opera di Bernanos o di Rebora, di Pomilio o di Dostoevskij, di Tolstoj o di Baudelaire, ma se è per questo neanche Graham Greene, non sono canoni di rigorosa applicazione dottrinale, pur rappresentando una instancabile ricerca di senso profondo e di un Dio anche nella natura. Come i personaggi più profondi di Pirandello.