1 maggio. “Quando tornerò”: il racconto del lavoro di cura (e dei suoi dolori)
Daniela, mamma di due figli, scappa di notte dalla Romania. La aspettano Milano e gli anziani, affidati alle cure di donne come lei. Diventerà “solo braccia”, una “mamma bancomat” che soltanto una tragedia riporterà a prendersi nuovamente cura della sua famiglia. Intervista all'autore Marco Balzano: “Nel nostro paese manca il welfare verso i lavoratori: ci chiediamo mai cosa provino queste donne e i loro figli?”
Daniela se ne va di notte, risparmiandosi la fatica dei saluti, della spiegazione, della separazione: lei sa perché lo fa, ma Manuel e Angelica, i due figli non più piccoli ma non ancora grandi, non possono o non vogliono capirlo. Dalla Romania a Milano, Daniela arriva in pullman, carica di pensieri e paure, ma certa di aver fatto la cosa giusta: solo lei, col lavoro che andrà a fare e i soldi che manderà a casa, permetterà ai figli di studiare e costruirsi un destino diverso dal suo. Daniela è una delle tante, tantissime donne che partono dai paesi dell'est europeo per diventare per lo più “badanti” nei paesi dell'Europa occidentale: secondo l'Istat, circa 1,2 milioni di lavoratori romeni vivono oggi in Italia. Manuel e Angelica sono due dei tanti, tantissimi figli che questa partenza trasforma in “orfani bianchi”: oltre 350 mila in Romania, secondo l’Unicef.
Marco Balzano, scrittore e insegnante, ha dato la parola a loro, madri e figli, nel suo ultimo libro “Quando tornerò”, edito da Einaudi e da poche settimane in libreria. Un “romanzo familiare”, così ce lo presenta, che vuole accendere un faro su un mondo silenzioso e invisibile, che pure è sotto i nostri occhi: il mondo delle donne che “si prendono cura, lontane dalla propria famiglia, dei nostri genitori e dei nostri figli. E che per far questo, rinunciano a prendersi cura dei loro, di figli. Con un impatto emotivo, da una parte e dall'altra, che ho ritenuto importante raccontare”.
Un romanzo a più voci, perché la vicenda è narrata da tre punti di vista: quello di Daniela, quello di Manuel, quello di Angelica. Tra i protagonisti, ci sono anche il marito e padre Filip, il nonno Mihai e la nonna Moma e poi, dall'altra parte, gli anziani (e, per un breve periodo, i bambini) che saranno affidati alle cure di Daniela, i familiari di questi, che con lei si relazioneranno in differenti modi, e le compagne di viaggio e di avventura: le altre donne romene che Daniela incontrerà a Milano e con cui si scambierà confidenze e con cui, soprattutto, potrà parlare la sua lingua, in un paese lontano, dove rischia di scomparire e di smarrire la propria identità.
Il viaggio di Daniela non è di sola andata: periodicamente – ma sempre più raramente – torna in Romania, carica di regali e di un crescente senso di estraneità, che la fa sentire straniera anche in patria. E carica di quel dolore che solo chi le vuole bene sa cogliere: “Nessuno si cura di chi si prende cura”, la mette in guardia sua mamma, anche lei un passato da badante. Sarà poi l'incidente di Manuel a riportarla definitivamente a casa, per ritrovarsi a prendersi cura, nuovamente, di un figlio a cui dovrà e vorrà spiegare, mentre lui lotta tra la vita e la morte, perché lei non ha mai smesso di essere sua madre.
Come è nata l'idea di raccontare le vicende (e le emozioni) di una “badante”? Un incontro, una vicenda personale?
Lo spunto è nato semplicemente andando in giro, osservando quello che accade nei parchi di Milano e di tutte le nostre città la domenica mattina: gruppi di donne dell'est Europa, che si ritrovano con un sospiro di liberazione a parlare la loro lingua, a tirare fuori i loro cibi, per poi sparire, nuovamente invisibili, dentro le nostre case. Ho deciso di conoscerle meglio, di ascoltarle e raccontarle. Così ho iniziato a studiare, ho intervistato studiosi, sociologi, medici. E poi sono partito, circa due anni mezzo fa, per la Romania: ho messo piede in mondo silenziato nel discorso migratorio e lavorativo. Ho visitato soprattutto la campagna romena e la città di Iasi: interi paesi spopolati di donne che sono qui da noi, nel nostro mondo privilegiato e anagraficamente vecchio. Ho esplorato e raccontato la traiettoria della cura: paesi interi in cui le donne sono tutte anziane e bambine, mentre quelle in età da lavoro appaiono solo nei cartelloni pubblicitari delle compagnie telefoniche. Sono paesi in cui i figli perdono la cura delle madri, che vengono a portare cura ai nostri figli, ai nostri genitori, ai nostri nonni. Sono donne che per il lavoro lasciano i figli, lo fanno per loro, che però spesso vivono quella partenza come un abbandono. Sono donne che vengono da noi a prendersi cura, spesso, delle fasi estreme della vita: l'infanzia, la malattia, la vecchiaia, l'accompagnamento alla morte. Noi affidiamo a loro questo carico, senza però spingerci a riconoscere la complessità umana ed emotiva di queste donne, che vediamo solo per quello che fanno. Daniela, quando viene in Italia, “si sente solo braccia”. E' sul sentire di queste lavoratrici della cura che, penso, faremmo bene ad indagare. Ed è proprio questo che ho voluto raccontare.
Nel libro però non racconti solo il sentire di Daniela...
No, a Iasi e nei paesi intorno ho incontrato i bambini e le comunità di queste donne: non potevo non ascoltare anche loro. La famiglia è il territorio in cui ciascuno rivendica le sue ragioni, ma nelle famiglie di queste donne, si produce un nodo insolubile: la madre compie una scelta e un gesto di coraggio per i propri figli, ma questi spesso lo vivono come un abbandono. Si parla di loro come “orfani bianchi”. Lo è Manuel, adolescente che soffre, per lo più in silenzio, per questa separazione, lo è Angelica, la figlia che, cresciuta troppo in fretta, vuole scappare anche lei. Le nostre badanti sono quasi tutte mamme: non ci sono persone che fanno questo tipo di migrazione senza avere figli, perché non si stravolge la propria vita in questo modo solo per se stessi. Queste donne partono e accettano la fatica e il dolore della separazione e di un lavoro pesantissimo per permettere ai figli di fare un 'salto'. Di solito ci riescono, perché i figli spesso, grazie ai soldi che ricevono, possono studiare e poi migrano anche loro. Il prezzo che queste donne pagano è quello di una vita passata altrove, diventando 'madri-bancomat' di figli che non vedono. E' la vita delle donne dell'est Europa, ma anche delle tante donne che, anche da Paesi molto più lontani, vengono a prendersi cura dei nostri bambini, dei nostri disabili, dei nostri anziani.
Di riflesso, la storia di queste donne racconta un po' anche la nostra, di storia...
Sì, è la storia di un mondo che è cambiato, rispetto alla civiltà da cui proveniamo: quella di Enea che, quando parte, si mette sulle spalle il padre Anchise. Quest'immagine non ci rappresenta più, siamo cambiati, è la realtà, non è una colpa. Oggi Enea va al lavoro, torna alle 8 la sera e il padre Anchise ce l'ha sulle spalle una madre che viene dall'estero e ha lasciato i suoi figli lontano, rinunciando a prendere in braccio loro.
Spesso si ammalano, queste donne, per la fatica ma anche per la lontananza: è il “mal d'Italia” di cui parli nel romanzo...
Sì, è un male diffuso, di cui tante soffrono: a Iasi c'è una clinica, che ho visitato e in cui ho raccolto alcune testimonianze, in cui vengono ricoverate e curate queste lavoratrici in burnout. Nel libro lo accenno appena, non mi soffermo: quello che mi interessa di più è far luce sulla necessità di ascoltare queste donne e creare un welfare per queste lavoratrici, che oggi manca completamente. Basti pensare che queste donne non le vacciniamo: è come chiedere a una mamma di allattare, impedendole però di mangiare. Sono le falle del nostro sistema, in cui manca una considerazione del benessere del lavoratore, del suo mondo umano ed emotivo: una considerazione tanto più necessaria nel caso di queste mamme lavoratrici, che sono lontane dalla loro famiglia e vivono chiuse nelle anguste camerette delle case dei nostri anziani.
E' il tuo appello per il Primo maggio?
E' quello che ho raccontato e che consegno al lettore, a cui spetta il compito di interpretare e di decidere da che parte stare. Avrei potuto rendere questa storia molto più cruda e cruenta, inserendoci l'assistito che la molesta, il marito violento, il figlio che si droga e finisce nelle fogne di Bucarest. Ho deciso di non farlo, di concentrarmi sulle dinamiche affettive che fa scattare la lontananza di una madre. Ho deciso di scrivere un romanzo familiare, che possa aiutare a riflettere e – perché no – a migliorare la situazione. Come diceva Cocteau, agli uomini andrebbero aperti gli occhi come vanno chiusi ai morti: con dolcezza. Lo scrittore apre gli occhi con dolcezza al suo lettore: sarà lui poi a dire se Daniela sia una madre degenere o una donna coraggiosa. E se la Milano che l'accoglie sia la nostra città ideale oppure no. Per me, il mondo ideale è quello in cui chi vuole partire parte, chi vuole restare resta. Quel mondo è lontano, altrimenti Daniela – penso - sarebbe restata.
Chiara Ludovisi