Trump o Harris? Il futuro sospeso, tra alternative reali e presunte

In vista di novembre, l’incertezza rimarca le differenze in Europa: tra i temporeggiatori, che aspettano le consegne future , e gli arrembanti, inclini a giocare d’anticipo

Trump o Harris? Il futuro sospeso, tra alternative reali e presunte

Dopo il passo indietro di Biden, il duello sarà probabilmente fra Donald Trump e Kamala Harris. E c’è già chi, nel dubbio, si prepara come può all’esito della partita.

In Ucraina vige ancora il decreto che vieta di trattare con Mosca. Ma, all’indomani dell’attentato in Pennsylvania, la sterzata di Zelensky sulla partecipazione della Russia a una conferenza di pace dice molto: non a chi attribuisce all’orecchio di Trump proprietà miracolose, ma a chi dal naufragio della bozza negoziale di Istanbul (marzo 2022) segnala il cordone più che motivazionale tra Washington e Kiev. Lo stesso vale per  la visita a Pechino di Kuleba, che rimuove il tabù sul piano di pace sino-brasiliano e lusinga Xi menzionando il principio della “One China”.

In vista di novembre, l’incertezza rimarca le differenze in Europa: tra i temporeggiatori, che aspettano le consegne future , e gli arrembanti, inclini a giocare d’anticipo. In Germania lo vediamo nelle frizioni tra i socialdemocratici e i verdi che, con il ministro degli esteri Baerbock, salutano con favore i nuovi missili da trasferire nelle basi Usa sparse sul suolo tedesco. Il governo polacco, dando sponda a Londra, spinge per il riarmo a tappe forzate, confermando la scalata alla leadership in Ue. Nella prospettiva dell’isolazionismo trumpiano, gli atteggiamenti sono ambivalenti: da un lato, c’è chi paventa di restare con il cerino in mano, temendo l’accollo dei guasti scaturiti dalla guerra in Ucraina; dall’altro, chi cerca l’opportunità di emergere nella concorrenza regionale, ridisegnando le gerarchie europee. Simile il ragionamento sul versante asiatico: le parole di Trump che ingiungono a di Taiwan di pagare il conto della protezione intimidiscono le Filippine, appena arruolate dalla Casa Bianca in funzione anticinese, mentre solleticano la competizione tra Sud Corea, Giappone e Australia in vista della “Nato del Pacifico”.

Gli indirizzi trumpiani non sono semplificabili in termini di cedevole appeasement. Il trascorso quattrennio fornisce qualche indizio: fu Trump a ritirare gli Usa dal Trattato Inf del 1987 sul bando dei missili nucleari a medio raggio in Europa; a sanzionare la Germania per il NordStream 2; a inaugurare la guerra dei dazi e a pretendere dalla Ue il recesso dalle partnership con Pechino; a imbarcare, a metà mandato, falchi neocon fautori dell’agenda anti-Iran (vedi il programma sul nucleare, l’omicidio Soleimani, gli attacchi ai campi affiliati ai pasdaran in Iraq e Siria, ecc.).

Sono considerazioni dubitative, che  osservano la tentazione degli apparati a sganciarsi da crociate deterioranti, senza però abdicare al controllo sul “cortile di casa” necessario alle proiezioni globali: rafforzando le deleghe regionali – seguendo il prototipo degli Accordi di Abramo – e sacrificando sull’altare della storia la figura di Biden, capro espiatorio degli affanni attuali. A dispetto della personalizzazione del tifo politico, restano le costanti strutturali. Se così non fosse, i gregari dalle sorti agganciate a Washington dovrebbero invocare l’antico principio “quod omnes tangit ab omnibus adprobari debet”, da cui pure i padri dell’indipendenza Usa trassero ispirazione: ciò che riguarda tutti, da tutti deve essere approvato. Al punto di aggiornarsi caldeggiando l’elezione internazionale del “presidente di tutti”. Chiaramente si tratta di una provocazione, un assurdo la cui impossibilità vuole evidenziare, per contrasto, la sussistenza di logiche egemoniche, “dure” e trasversali, superiori persino all’antagonismo domestico tra repubblicani e dem.

Limitandoci al quadrante mediorientale, giudicando le convergenze fattuali anziché le distinzioni verbali, basti osservare l’accoglienza trionfale tributata in modo bipartisan a Netanyahu nel Congresso, i flussi di armi a Tel Aviv, i veti all’Onu, i finanziamenti dell’Aipac ai candidati alla Casa Bianca di ambo i partiti. Al di là del repertorio caratterizzante (woke, gender, pro-choice, ecc.), il curriculum stesso della Harris è perspicuo, viste le entrature coltivate sin dai tempi della carriera da procuratore o il contrasto alle risoluzioni Onu contro le occupazioni dei coloni in Cisgiordania. Viepiù significativo il fatto che i colossi del risparmio gestito, dopo gli appoggi a Biden, ora si orientino a sovvenzionare tanto Kamala quanto il Tycoon. Il che conferma le strutturalità di un sistema in cui la ripresa viaggia anche sul binario del keynesismo di guerra, per cui le commesse militari compensano la crisi dell’economia reale, con un debito pubblico foraggiato dai capitali reinvestiti dei fondi assicurativi, rimpinguati grazie alla contrazione dei consumi oltre che da un welfare poco generoso. Senza contare che Blackrock, Vanguarde, State Street, ecc., lanciati all’acquisizione dei grandi asset esteri, risultano funzionali a contrastare la dedollarizzazione dei mercati globali.

Sotto la patina dell’infotainment, l’alternativa tra formule tattiche non garantisce svolte strategiche sostanziali. A meno che, nelle more dei disimpegni auspicati da chi scommette su Trump, non si aprano finestre di revisione più profonda, utili a intercettare un desiderio di pace che pure stenta a montare come dovrebbe, ovunque.

Giuseppe Casale*

*Scienze della pace – Pontificia Università Lateranense

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Fonte: Sir