Sulla strage in Nuova Zelanda: cercare una via personale e comunitaria di conversione
La viltà degli assalitori è somma: aggredire persone inermi e in preghiera. Non importa in quale “tipo” di preghiera pur che, in questo caso, preghiera sia. Il duello almeno mette a confronto due contendenti, ad armi pari. L’odio invece prevale e trama con violenza dinanzi agli inermi, a chi non si attende un assalto e quindi non può reagire. Esiste un antidoto, una terapia che possa guarire il ghigno degli assalitori, fare breccia in loro e riportarli a pensieri che non siano tenebrosi? Quali esperienze di sofferenza hanno segnato la loro vita? Quali nodi irrisolti li portano a colpire?
Il fatto e la sua diffusione nel web sconcertano ma anche scardinano alcuni principi che reggono la persona e il suo rapportarsi con i suoi simili.
La pianificazione accurata e sistematica, la condivisione con altri che, ovviamente, sono pronti a schierarsi sulla stessa linea, la dicono lunga sul lento e preciso covare di quella strage che poi si è svolta in soli 17 minuti.
Il distorcimento del pensiero e del sentire profondo balzano evidenti e segnano una demarcazione che, una volta superata, comporta un interrogativo lancinante: da dove scaturiscono queste ombre oscure, questi abissi di cui non si scorge il fondo?
Il sentire umano è di tutti: è il pulsare della vita, della trama dell’esistenza che interagisce creando una corrente che circola fra tutti.
Non basta sentire, non basta affermare o constatare il verificarsi della tempesta emotiva. È ancora un’asserzione priva di valore. Dovrebbe martellarci il “perché?”.
Il sentire va educato, controllato, portato ad elevazione, non lasciato allo stato brado.
È un processo lungo, impegnativo che richiede di guardare in faccia il proprio egoismo, quel lato di sé che sempre, ad ogni costo, si vuole salvare, senza pensare agli effetti controproducenti che può generare.
Il processo mimetico lavora come un tarlo, lentamente corrode e poi affiora un buco.
La sua radice però è l’affettività, il bisogno di avvertirsi amati. Lo si può esprimere con un’immagine: la mano è aperta nel dare e nel darsi oppure è un artiglio pronto ad afferrare e ingurgitare in se stesso tutto quanto può divorare?
L’odio può essere pensato come una sorta di bulimia: se accetto e faccio mio un istinto di malevolenza, magari un piccolo ed insignificante (all’apparenza!) seme, la pianta sarà rigogliosa, frondosa, con radici che si dirameranno ovunque. Tossiche però. Dannose. Portatrici non solo di malessere ma dell’incarnazione del male, qualunque ne sia la ragione filosofica o teologica sottesa.
La frustrazione delle proprie aspettative è sovrana nel generare un guizzo pronto ad incendiare il pagliaio che poi si propaga distruggendo.
Il bisogno di riscatto si innesta e bisogna proiettarsi su qualche personaggio che abbia fatto parlare di sé, che si sia imposto per una qualche azione che la storia (o la pseudo storia, la semplice cronaca piegata alla pubblicità mistificante) fa sua e fa crescere a dismisura come una schiuma irrefrenabile.
La viltà degli assalitori è somma: aggredire persone inermi e in preghiera. Non importa in quale “tipo” di preghiera pur che, in questo caso, preghiera sia. Il duello almeno mette a confronto due contendenti, ad armi pari.
L’odio invece prevale e trama con violenza dinanzi agli inermi, a chi non si attende un assalto e quindi non può reagire.
Esiste un antidoto, una terapia che possa guarire il ghigno degli assalitori, fare breccia in loro e riportarli a pensieri che non siano tenebrosi?
Quali esperienze di sofferenza hanno segnato la loro vita?
Quali nodi irrisolti li portano a colpire?
L’essere persona degli altri esattamente come se stessi non rientra più nella logica della vita, è subentrata un’illogica senza freni, incapace, perché nutrita di odio, di percepire il dolore altrui, l’ondata di efferatezza che colpisce e distrugge.
L’attentatore che ne è la mente, possiede ed agisce con argomentazioni di una sana ragione oppure sragiona? Ricercarne la ragione filosofica o astratta sposterebbe il problema e darebbe agio ad un dossier di tessere per un mosaico di citazioni, di vicende e cose già dette.
È opportuno invece tenere i piedi per terra e cercare una via, personale e comunitaria, di conversione, di mutamento.
Il tempo sacro dei quaranta giorni, indipendentemente dalle scelte ascetiche o non ascetiche che immediatamente possono far discutere, non crea il terreno per l’ascolto della Parola che conduce lo sguardo al Crocifisso Risorto?
Cambiare quindi il proprio cuore che può odiare, in cuore che pulsa per gli altri, come sono e come dobbiamo accettarli dalla mano del nostro comune Creatore.
Cristiana Dobner