Stipendi ancora al palo. 2025 a tinte fosche. Scrive Maurizio Drezzadore, presidente Acli Padova
Bassa produttività e costo dell’energia. Così l’industria italiana compete con il resto d’Europa ad armi impari. E la politica non compie le riforme necessarie a evolvere
S e da oltre trent’anni i salari italiani sono al palo e aumenta la distanza con quelli dei principali Paesi europei vuol dire che bisogna cambiare radicalmente le politiche. Basta bonus, mancette natalizie, provvedimenti straordinari: bisogna dar forma a un progetto strutturale di ripensamento del ruolo del lavoro nella società italiana. Secondo il rapporto Ocse 2024 i salari reali italiani, corretti dall’inflazione, sono rimasti sostanzialmente invariati rispetto al 1990. Infatti, tra il 1990 e il 2023, in Italia sono aumentati solo del 2,9 per cento, mentre nello stesso periodo in Germania e in Francia l’aumento è stato pari al 33 per cento. Le prospettive per il 2025 non sono incoraggianti, visto che gli esperti dell’Ocse stimano l’aumento dei salari nominali al 2,5 per cento, mentre l’inflazione ne assorbirà circa il 2 per cento. Numerose sono le ragioni di questa stagnazione: la principale rimane la bassa produttività del lavoro italiano cresciuta solo del 4 per cento negli ultimi vent’anni, mentre in Germania e Francia l’aumento è stato rispettivamente del 15 e del 20 per cento. Concorrono in modo determinante alla bassa produttività del lavoro nel nostro Paese la fuga dei giovani cervelli verso altri Paesi, l’invecchiamento della popolazione lavorativa, l’elevato disallineamento tra competenze richieste dalle imprese e risorse disponibili nel mercato del lavoro, l’instabilità lavorativa specialmente tra i giovani. Tutti ambiti nei quali l’intervento riformatore della politica potrebbe modificare sensibilmente le cose. Su tutto primeggia una endemica tendenza alla compressione del costo del lavoro, in particolare nella piccola e piccolissima impresa che rappresenta la fetta più rilevante dell’apparato produttivo, specialmente nel Veneto. Insomma il mito del benessere degli anni Ottanta del secolo scorso all’insegna del “piccolo è bello” non si è ancora spento nella politica nazionale, coltivato come prezioso orticello del consenso anche in epoca in cui la globalizzazione ne ha distrutto ogni positiva valenza. Per invertire questa tendenza sarebbe invece necessario un piano di riforme strutturali: investimenti in innovazione e accorpamenti, formazione professionale e digitalizzazione sono fondamentali per aumentare la produttività e, di conseguenza, i salari. Insomma è la politica che deve fare la sua parte e sono le riforme che servono ancor prima della contrattazione. Resta una questione che sovrasta ogni altra: come si possa affrontare la sfida della green economy – con i conseguenti impegni di abbandonare tutte le forme energetiche fossili e i settori produttivi ad esse correlate – con il costo della bolletta elettrica che ci ritroviamo in Italia. Il prezzo medio per megawatt/ora nel 2024 nel nostro Paese non è mai sceso sotto i 100 euro, in Francia non ha superato i 50 euro, in Germania i 70 euro, in Spagna i 53 euro. Insomma l’industria italiana sta correndo appesantita da una zavorra pesantissima sui costi di produzione, in cui la produttività del lavoro diventa una delle tante componenti e nemmeno la più rilevante. E se la bolletta elettrica continuerà a essere così elevata, come si può immaginare la sostenibilità sociale dell’abbandono dei fossili? Eppure l’Enel, il più grande polo energetico del Paese, è di proprietà del Ministero dell’economia e delle finanze che detiene il 24 per cento delle azioni e, insieme a un gruppo di investitori istituzionali, ne controlla il 59 per cento dell’azionariato, assicurandosene la guida. Avremmo le condizioni ottimali per mettere in campo nuove scelte per fonti energetiche alternative, nucleare di ultima generazione compreso, e per assicurare una gestione ed erogazione da parte di uno dei top player di mercato più autorevoli in Europa, abbattendo il costo dell’energia per famiglie e imprese. Alla stagnazione trentennale dei salari si stanno accompagnando due altri fattori che incidono pesantemente sulla sostenibilità dei redditi da lavoro e delle pensioni nel nostro Paese: il lento scivolamento del welfare da erogazione pubblica all’accesso con risorse private – particolarmente pesante nella sanità – e il rincaro degli affitti che nel Veneto ha visto un aumento nel 2024 dell’8,6 per cento; opportunamente richiamato di recente dal vescovo Claudio Cipolla. Insomma di fronte alla stagnazione dei salari il costo della vita si fa sempre più aggressivo sospinto da inflazione, caro affitti e spesa sanitaria. Tuttavia nonostante l’impellente necessità di intervenire, nelle prime settimane del 2025 agli occhi dei lavoratori, la questione salariale si presenta del tutto simile alla disputa sul salario minimo del 2024: tra politica e contrattazione a chi tocca intervenire? Col rischio che dopo trent’anni tutto rimanga ancora come prima.
Maurizio Drezzadore
Presidente provinciale Acli Padova