“Qui si vive la morte”. Viaggio nel luogo dove si salutano i propri cari
Entriamo nell’hospice di San Cesario di Lecce, struttura pensata per offrire assistenza piena ai malati cronici arrivati alla fase terminale della propria vita. Un tempo “l’ospedale dei morti”, oggi luogo per offrire dignità e cure palliative. Un “prendersi cura” che prosegue anche in tempi di Covid-19
In questi giorni sospesi e paralizzati dall’epidemia da Covid-19, nei luoghi di cura lo sforzo è massimo per continuare a garantire per quanto possibile la normalità. Succede anche in quei luoghi pensati fin dal principio per accompagnare la fine della vita in modo dignitoso. In Puglia, nel Salento, l’hospice di San Cesario, a pochi chilometri da Lecce, continua ad accogliere le persone che fanno richiesta di ricovero. “Chiediamo – sottolinea Vincenzo Lucio Caroprese, dirigente medico responsabile della struttura - che vengano effettuati i tamponi sui pazienti che arrivano presso di noi dagli ospedali, ma non riusciamo a garantire questo anche a tutte le persone già ricoverate, e non disponiamo di sistemi di protezione adeguati”.
Uno degli aspetti più critici dell’attuale emergenza riguarda la presenza, accanto ai pazienti ricoverati, dei loro familiari, che in condizioni normali l’hospice assicura, considerandolo un vero e proprio aspetto cruciale durante il ricovero: “Ora cerchiamo di disciplinare e controllare l’ingresso dei familiari, di regolarlo cioè secondo criteri di sicurezza, per non privare completamente i pazienti di questa presenza”.
L'hospice e l'assistenza ai malati in fase terminale
In questa terra – detta delle “prefiche”, donne presenti ai riti funebri con la specifica funzione di piangere con gesti di dolore e intonare canti in elogio del defunto – l’hospice di San Cesario è stata la prima struttura in grado di offrire assistenza piena ai malati in fase avanzata. Sorto nel 2003, veniva indicato come “l’ospedale dei morti”. Ospita persone nella fase acuta della loro malattia, quando non ci sono ormai più, purtroppo, possibilità di guarigione. Donne e uomini che vanno verso la morte, ma verso i quali il “prendersi cura” mantiene inalterato un senso profondo.
“La nascita dell’hospice – racconta Caroprese ripercorrendo la storia di questa struttura - è stata una sfida, perché ci siamo posti in un contesto che non prevedeva che un paziente potesse essere portato in un centro specializzato per finire i propri giorni con cure palliative”. Un tema, questo, regolato inizialmente in Italia con la legge 39/1999 e successivamente con la legge 38/2010, ma che a distanza di tempo sembra ancora oggi far fatica a trovare pieno spazio. “Le cure palliative, nate in origine nei paesi anglosassoni, sono arrivate in Italia con un certo ritardo, anche sull’onda di esigenze di tipo sanitario, con l’aumento dell’incidenza delle malattie croniche – sottolinea Evelina Pedaci, medico presso l’hospice di San Cesario -. Questo ha innescato un cambiamento anche dal punto di vista culturale, che deve però ancora sfondare completamente, legato all’accompagnamento dignitoso della persona al fine vita”.
NON È IMPORTANTE "DOVE" MA "COME" SI MUORE
L’hospice di San Cesario è una struttura dell’Asl di Lecce; vi si accede tramite richiesta del medico di base o dei familiari della persona malata, ciascuno viene ricoverato in una stanza singola, e la permanenza è totalmente gratuita perché a carico del Servizio sanitario nazionale. In ogni stanza, inoltre, è a disposizione un altro letto per dare la possibilità ad un familiare di stare sempre accanto al proprio caro (è richiesto in questo caso un contributo minimo alla famiglia, eventualmente supportata dai servizi sociali del Comune). Finora, in 17 anni di attività, l’hospice ha ospitato circa 3.600 pazienti, “ma l’aspetto più significativo – afferma Caroprese – sta nell’essere riusciti nel tempo a modificare l’atteggiamento dei familiari della persona malata, riuscendo a far capire che non è importante dove ma ‘come’ si muore. E’ stato necessario del tempo, per i primi tre-quattro anni dopo l’avvio abbiamo dovuto ‘seminare’ per farci conoscere. In un territorio come questo, poi, il fine vita è sempre stato visto come un fatto esclusivamente privato, quindi riuscire a portare fuori casa un ammalato in fase avanzata è stato un fatto davvero rivoluzionario”. Un risultato raggiunto grazie al lavoro dell’equipe multidisciplinare all’interno dell’hospice ma impegnata molto anche fuori, sul territorio. Sono circa trenta le professionalità impiegate, tra volontari, medici, infermieri, operatori socio-sanitari, psicologi. “Quando l’hospice è nato – aggiunge il dirigente medico della struttura – era chiamato ‘l’ospedale dei morti’: oggi questa definizione è stata superata. Oggi succede che pur avendo a disposizione tredici posti letto, dobbiamo lasciare a casa mediamente almeno due-tre pazienti che non riusciamo a ricoverare proprio per mancanza di posti”.
Dopo la richiesta di ricovero, il personale dell’hospice svolge un lungo colloquio con i familiari, spiegando bene il significato di questa permanenza. Successivamente si svolge l’incontro con la persona malata, verificando la fase acuta della patologia, per poi passare alla presa in carico. Il ricovero riguarda pazienti con qualunque tipo di malattia terminale, chi è colpito da patologie neoplastiche può essere ricoverato anche solo temporaneamente, per riuscire a recuperare buone condizioni generali. Chi si trova in condizioni stabili, quindi, può essere dimesso, in modo da riuscire a trascorrere un periodo a casa propria.
Stefania Rollo, infermiera professionale, lavora nell’hospice di San Cesario di Lecce da sedici anni. “Quando sono arrivata, non avevo idea di cosa fossero l’hospice e le cure palliative – racconta -. E’ stato molto difficile, mi sono formata sul campo, insieme agli altri colleghi, nel modo migliore possibile, vivendo tutto in prima persona. Qui si cerca di offrire il massimo dell’assistenza in ogni senso, è molto diverso rispetto ad una struttura ospedaliera, perché ogni figura professionale non deve limitarsi all’aspetto sanitario e della terapia, ma avere presenti anche quelli psicologici e relazionali. In questi anni ho assistito anche all’avvicendarsi del personale nella struttura, ed è stato importante incentivare il numero degli operatori socio-sanitari”.
Sara Mannocci