Quei 200mila che mancano. I lavoratori stranieri che fanno quello che noi non vogliamo fare
Ci sono occasioni di occupazione non attirano gli italiani: andare in campagna a partecipare alla raccolta di frutta e verdura oppure negli allevamenti di ogni tipo.
Circa 200mila posti di lavoro, subito. Una prospettiva da sogno in un Paese come l’Italia, dove i disoccupati ufficiali oscillano attorno alla cifra non indifferente di due milioni e mezzo di unità. E poi ci sono quelli che nemmeno più lo cercano, un lavoro.
Eppure, queste occasioni di occupazione non attirano gli italiani: si tratterebbe di andare in campagna a partecipare alla raccolta di fragole, meloni, pomodori, uva, mele, olive… Oppure negli allevamenti di ogni tipo, dalle bufale ai caseifici annessi. Quindi si ricorre alla manodopera straniera, allora sì benvenuta e anzi fortemente desiderata.
Peccato che, in epoca di Covid, diventi difficile se non impossibile far arrivare in Italia i circa 200mila tra rumeni, marocchini, albanesi, polacchi… Alcuni comunitari, altri no e la cosa si complica ancor di più. Fermi restando i 400mila stranieri che sono già impiegati come operai agricoli fissi, perché senza di loro praticamente le campagne e gli allevamenti non esisterebbero.
Qui si assommano due questioni: da una parte la ritrosia a fare lavori considerati umili, poco redditizi, faticosi. Dall’altra, una serie di provvedimenti legislativi che non ha certo stimolato a far incontrare la domanda e l’offerta di lavoro: perché fare fatica quando arriva comodo il reddito di cittadinanza? Perché non utilizzare più quei voucher che erano perfetti sia per chi pagava che per chi li riceveva? Perché ostacolare a più non posso i contratti a termine? Tre scelte scellerate che hanno un unico mandante politico, come sappiamo.
Si aggiunga infine la continua complessità del tutto italica ad affrontare la questione dell’immigrazione straniera per motivi economici. Non ci vengono a rubare il lavoro, anzi! Senza quella manodopera non si fermerebbero solo le campagne, ma anche molte fabbriche, praticamente tutta l’assistenza alle persone, diversi servizi (dalle pulizie domestiche al trasporto di beni); una discreta fetta di ristorazione e di economia legata all’accoglienza. E altro ancora, dall’edilizia ai lavori stradali.
C’è nei confronti queste persone lo stesso atteggiamento che si ha con il personale delle pompe funebri: necessario, ma non vorremmo averlo in casa. E quando ci viene, non un minuto prima né un minuto oltre. Forse ci ricordano troppo quegli italiani che andavano a lavorare nelle campagne francesi, nelle fabbriche tedesche, nei ristoranti svizzeri, nelle miniere belghe. Anche allora accettati per la loro opera, ma respinti da cartelli che, davanti alle case, rammentavano che “qui non entrano né cani, né italiani”.