Paralimpiadi di Parigi. Matilde, sordocieca, gareggia nel judo: “Voglio aprire un mondo a tutti quei disabili che pensano di non farcela”
L’emozione e la tensione, la consapevolezza delle difficoltà di doversi battere, a quasi 58 anni, con atlete molto più giovani, e l’orgoglio di dare a tutti un grande incoraggiamento. La napoletana si racconta al Sir in occasione del match
Un’emozione grande. Non è alla sua prima Paralimpiade, ma in un certo senso è un’esperienza nuova. Parliamo di Matilde Lauria, 58 anni a dicembre, che gareggerà ai Giochi paralimpici di Parigi oggi, venerdì 6 settembre. Matilde è una judoka di Napoli: è stata l’unica atleta sordocieca a partecipare alle Paralimpiadi di Tokyo 2020, dove si è qualificata ai quarti di finale.
“A Tokyo – dice al Sir – eravamo in pieno Covid, vivevamo come in una bolla, non c’era pubblico. Anche allora è stato emozionante, anche perché era la prima volta che partecipavo e che un’atleta sia sorda sia cieca gareggiava.
Non posso nascondere che questo mi ha riempito di orgoglio, perché ho aperto un mondo ad atleti sordociechi come me e la mia partecipazione ha avuto molta visibilità.
Tra l’altro, io cieca ho gareggiato con una ipovedente udente. Quest’anno ci dovrebbe essere anche un altro atleta sordocieco, un francese, ma nel mio ranking resto l’unica. Adesso l’emozione è ugualmente grandissima perché c’è anche il pubblico”. Ma è anche un’emozione diversa, come ci racconta da Parigi, dove si è preparata a salire oggi sul tatami per gareggiare:
“Arrivare a Parigi è stato molto emozionante, ma ai Giochi di Tokyo mi sentivo più euforica, l’adrenalina era fortissima. Essendo la mia seconda esperienza adesso sono più consapevole delle difficoltà della gara”.
Che clima si respira tra gli atleti a Parigi? “Siamo tesi un po’ tutti per le gare. Ogni tanto ci incontriamo con gli altri atleti italiani, ma solo per salutarci, perché abbiamo orari e luoghi di allenamenti e gare diversi. Solo con gli altri impegnati nel judo condividiamo più tempo perché facciamo gli allenamenti insieme”.
La storia speciale di Matilde, che è seguita dalla sede territoriale di Napoli della Lega del Filo d’Oro, inizia presto: ipovedente dall’età di tre anni a causa di una miopia maligna, ha perso anche l’udito nel tempo, ma non ha mai smesso di credere in sé stessa e nelle sue potenzialità.
Nonostante gli ostacoli imposti dalla sua disabilità sensoriale, non si è mai arresa. Matilde ha vinto diverse medaglie a livello nazionale e internazionale fino a diventare un’atleta paralimpica riconosciuta a livello globale.
“Sin da piccolissima – precisa l’atleta paralimpica – avevo una fortissima miopia e portavo i classici occhiali a fondo di bottiglia. Mio padre non ha mai voluto farmi frequentare scuole speciali perché lui voleva per me l’inclusione totale. Io sono la seconda di 9 figli. Io mi sono sentita normale a casa, ma i problemi sorgevano a scuola, quando andavo a fare ginnastica. Io ero un maschiaccio, mi piaceva fare sport, giocare, ero un vulcano. Papà mi spingeva a fare tutto. Ma la mia storia si è ulteriormente complicato a 8 anni, quando ho avuto un’encefalite morbillosa, che mi ha tra l’altro provocato il distacco della retina, e stavo per morire. Ma anche da quella batosta mi sono ripresa, sebbene abbia dovuto fare anche tanta riabilitazione. È stato grazie alla tenacia e alla positività di mio padre che neanche allora mi sono arresa”. Matilde non ha combattuto solo contro la malattia ma anche contro i pregiudizi: “Per strada mi etichettavano: andavo in giro con occhialoni da paura e un mirino all’occhio sinistro che era anche pigro. Poi ho avuto varie operazioni per la retina, ma sono sempre andata avanti. Da allora ho fatto calcetto, vela, ciclismo, ho studiato e lavorato. Non mi sono mai fatta mettere i piedi in testa dagli altri.
Papà mi diceva: ‘Matilde, tu sei uguale agli altri, dignitosa, nessuno è più di te o inferiore di te’. Queste parole le ricordo sempre”.
Da ipovedente alla cecità. “Ho perso l’uso dell’occhio destro all’età di 26 anni e a 30 quello del sinistro. Poi 11 anni fa, ero incinta al mio terzo figlio, Gabriele, ho perso l’udito a entrambe le orecchie. Con la Lega del Filo d’Oro ho intrapreso un percorso, ho messo un impianto all’orecchio sinistro, che mi permette, quando lo uso, di recuperare parzialmente l’udito. Nella mia vita ho avuto tante difficoltà, ma ogni volta ho avuto il mio riscatto. I medici dicevano che non potevo avere figli e ne ho tre: Paola, Marco e Gabriele. Mio marito, per sopportarmi, ha dovuto correre parecchio! Anche per i miei figli non è stato facile avere una mamma con disabilità per i pregiudizi all’esterno. Quello che mi manca tanto è non vedere i miei figli”.
Grazie al sostegno della Lega del Filo d’Oro, Matilde ha imparato a comunicare con la Lis tattile, la dattilologia, il sistema Malossi e il Braille. “Sono stata anche ad Osimo, mi hanno dato il piano terapeutico, mi hanno sempre supportato, perché per me non è stato facile quando alla cecità è subentrata anche la sordità”. Ha scoperto il judo oltre 20 anni fa, grazie a suo figlio e al suo maestro, e da allora ha coltivato la sua passione per questa disciplina, che ha rappresentato per lei un’importante rivincita nei confronti della società. Quando combatte sul tatami non può indossare nessun tipo di oggetto metallico, nemmeno l’apparecchio per l’udito. Sarà così anche nella gara delle Paralimpiadi parigine. “Sono l’unica sordocieca – ricorda Matilde –, le altre atlete, al contrario di me, sentono. Quando gareggio devo togliere l’impianto, questo mi provoca molta tensione.
Sono completamente isolata: non vedo e non sento, è un mondo completamente buio e in silenzio. Lavoro moltissimo sulle vibrazioni che vengono dal tatami, da quello che percepisco sotto i piedi e sotto le mani. In una manciata di secondi devo elaborare queste informazioni, lavorando molto di testa, e decidere la mossa da fare. Mi aiuta l’istinto, l’intuizione del momento.
Ovviamente, sono penalizzata rispetto alle mie avversarie che non sono sorde e possono seguire i consigli dei loro coach, al bordo dei tatami, che magari le avvisano anche della mossa che sto per fare. Io me la devo cavare da sola, non devo perdere la concentrazione e i miei punti di riferimento. Non solo: non posso sapere se è stata assegnata una penalità, ma la mia avversaria invece lo sa. Non posso sapere se l’incontro sta finendo. Solo quando finisce il combattimento l’arbitro mi scrive sulla mano quello che è accaduto”. Con che spirito si accinge a salire sul tatami? “Sono un po’ tesa, mi sento più insicura di Tokyo 2020, ma voglio vincere”. Cosa fa prima della gara?
“Prima di iniziare respiro e penso ad un’aquila che apre le ali. Poi il mio pensiero va a papà”.
Qual è la difficoltà maggiore? “Con la cecità sono nata, con la sordità ci convivo. Essendo ipovedente da piccola, mi sono pian piano abituata alla cecità, la sordità è arrivata 11 anni fa e non riesco proprio ad abituarmi. Quando tolgo la protesi vado molto in ansia. Quindi,
il mio primo nemico da battere sono io! Ma per me gareggiare è una forma di rivalsa sulla società, una forma di resilienza.
Per tutti quelli che hanno difficoltà, voglio dimostrare che si può fare. La disabilità non va combattuta, va vissuta. La disabilità è una condizione e noi atleti con disabilità non ‘partecipami’, gareggiamo!”. Qual è allora il messaggio che vuole trasmettere da Parigi? “Il mio messaggio è sempre chiaro e forte. Con molta spinta e molto aiuto, si può fare tutto, qualsiasi difficoltà si può superare, se dietro c’è una bella squadra, genitori che sostengono, la forza dei coach si può arrivare dappertutto.
Spero che il mio essere in gara a Parigi, tra l’altro ho 57 anni, quasi 58 anni, e combatto contro ragazzine, dai 19 ai 30 anni, sia un incoraggiamento per tutti: mettersi in gioco è molto più importante che vincere una medaglia.
È una bella sfida essere ancora in gioco malgrado la cecità, la sordità e i miei vari acciacchi. Se viene la medaglia bene, ma il riscatto non viene da lì, è costituito da tutto il lavoro che si è fatto precedentemente, dalle emozioni fortissime che si vivono. Si cade e ci si rialza: il judo – la via della cedevolezza – è proprio questo cadere, ma anche rialzarsi sempre. Soprattutto ai giovani voglio dire l’importanza di mettersi in gioco e andare avanti, non per dimostrare qualcosa agli altri, ma a se stessi. Lo stesso lavoro che fanno i normodotati lo facciamo anche noi, anzi, forse, noi mettiamo qualcosa in più, proprio per le difficoltà da superare”.
Dopo Tokyo, Matilde è diventata un punto di riferimento per genitori di bambini con i medesimi problemi e che volevano fare sport, dando consigli anche alle palestre che frequentavano. “Ho conquistato la fiducia dei ragazzini, raccontando la mia storia, facendo toccare il mio apparecchio, ma aiuto anche chi mi chiede consiglio per altre discipline, cerco di motivare le persone con disabilità invogliandole a farsi spazio in una società che ancora non è pronta a capire come una persona con disabilità sia al tempo stesso normale. La disabilità è una condizione”. E conclude: