Medioriente: il doppio binario di Washington e l’estensione “controllata” del conflitto
Al netto delle sparute polemiche sull’aggiramento dei rispettivi parlamenti addebitato agli ordini di attacco dati da Biden e Sunak, alcuni commentatori parlano dell’ennesima guerra preventiva mossa dall’Occidente
Alle contraddizioni– reali e presunte – associabili agli eventi mediorientali, gli scorsi giorni hanno aggiunto un ulteriore elemento.
Mentre il tour diplomatico di Blinken annunciava l’intento di prevenire l’allargamento del conflitto, i raid di Usa e Gran Bretagna sullo Yemen conferivano la temuta estensione regionale.
Al netto delle sparute polemiche sull’aggiramento dei rispettivi parlamenti addebitato agli ordini di attacco dati da Biden e Sunak, alcuni commentatori parlano dell’ennesima guerra preventiva mossa dall’Occidente. Tuttavia, a rigore, si tratta di una risposta ad azioni in danno della sicurezza della navigazione, prevista a norma del diritto internazionale. Tanto più considerando la risoluzione autorizzativa votata nel Consiglio di Sicurezza. Eppure la Russia, astenutasi in quella sede, adesso è in cospicua compagnia nell’eccepire – come già per i casi di Libia e Siria – l’illegittimità dei bombardamenti che starebbero assumendo un crescendo di offensività e profondità, così da superare la funzione deterrente abilitata, alibi per procurare la caduta del regime houthi – quantunque non pacificamente riconosciuto nella comunità internazionale.
Con eccezione del Bahrein, che partecipa in appoggio alla missione navale Prosperity Guardian, non plaudono neanche i governi arabi visitati da Blinken. Persino i sauditi – nel 2015 promotori della lega anti-houthi che si inserì nella guerra civile yemenita – si dicono preoccupati per l’ulteriore spinta alla destabilizzazione regionale.
Le tempistiche degli eventi presentano dunque il viaggio di Blinken come parte del doppio binario (diplomatico e militare) che conferma sì l’obiettivo a contenere l’allargamento del conflitto, ma senza precludersi azioni muscolari a difesa di interessi immediati, come la rotta mercantile del Mar Rosso minacciata dai sabotaggi yemeniti.
Azioni da condurre in “ambiente controllato”, cioè con la cautela – che vale bene l’ennesimo tour diplomatico – di intimare ai governi dell’area di assecondare passivamente la prelazione militare degli Usa. Con la raccomandazione di vigilare al proprio interno su eventuali intemperanze delle sponde all’antiamericanismo locale.
L’Ue invece prospetta già l’invio di almeno tre fregate. Bisognerà decidere a quali membri spetterà l’onere del servizio offerto da von der Leyen, pur priva di soggettività geopolitica e militare. A dirla tutta, l’offerta si presta a una lettura ambivalente. Per un verso, la solerzia mostra gli effetti della nuova linea di Washington sulle “quote associative” dei suoi protetti. Per altro verso, la disponibilità ostentata da Italia e Francia oggi, a fronte delle tiepidezze delle scorse settimane sull’ipotesi di azioni di guerra diretta, può essere l’espediente per riciclare la partecipazione alla sorveglianza navale congiunta Agenor nel Golfo Persico, conservando le stesse regole di ingaggio e sottraendosi al comando diretto di Washington sulle operazioni contro gli houthi. I quali a settembre stavano fronteggiando proteste interne, per via dello degli stipendi non versati ai funzionari pubblici. Per ritrovare invece da ottobre l’occasione di alimentare – mediante gli attacchi, resi e subiti – le proprie credenziali di irriducibili paladini dell’islamonazionalismo impegnato contro le vessazioni di Tel Aviv e Washington.
La direttrice strategica yemenita, rafforzata dai bombardamenti statunitensi e britannici, risulta alquanto evidente. Poco chiara quella del governo israeliano, ancora restio a indicare un obiettivo meno velleitario dell’abolizione, nelle menti e nei cuori, di sentimenti di rivalsa antisionista. Washington spinge affinché il bersaglio si delinei, suggerendo invano di vincere, almeno provvisoriamente, l’impronunciabile tabù della “soluzione a due stati”.
Intanto però Israele ha accettato di comparire in giudizio davanti alla Corte penale internazionale, dove l’ha trascinato il Sudafrica con l’accusa genocidio e di sistematiche violazioni del diritto internazionale mediante una segregazione civile strutturata a onta di risoluzioni Onu e trattati. E chiedendo, indipendentemente dall’accertamento dei crimini, l’ingiunzione di un immediato ritiro da Gaza. Notizia di non poco conto il fatto che Tel Aviv si sia costituita nel dibattimento istruttorio, pur tacciando di antisemitismo gli accusatori, responsabili di un nuovo “affare Dreyfuss”. Israele infatti è tra gli stati che non si assoggetta al Tribunale dell’Aja, potendo comunque sottrarsi in ogni momento a una giurisdizione priva di strumenti di applicazione coercitiva. Difficile dire quali esiti – reali, almeno simbolici o solo cosmetici – potranno sortire dalla Corte. Ma è chiaro che la certezza di essere impermeabili al resto del mondo appare meno tetragona, consapevole del discredito attratto sull’immagine dell’oasi di civiltà e democrazia nel deserto della barbarie autocratica.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università Lateranense