Maneggiare con cura. E' una bella riflessione sulla scuola quella che fanno gli studenti del Berchet

Vale la pena di leggere la lettera scritta dagli studenti del liceo Berchet di Milano (e sottoscritta da tantissimi rappresentanti di altre scuole), che chiede “il necessario riconoscimento di una dignità della fragilità”.

Maneggiare con cura. E' una bella riflessione sulla scuola quella che fanno gli studenti del Berchet

“Maneggiare con cura”. Quante volte capita di leggere questa indicazione sull’imballo di qualche prezioso elettrodomestico. E l’imballo si preoccupa anche di indicarci quale dia l’”alto” o il “basso” del pacco, per preservare il contenuto.
“Maneggiare con cura” può diventare uno slogan da applicare agli studenti delle nostre scuole, ai nostri figli, che improvvisamente scopriamo essere ben più fragili di quel prezioso elettrodomestico così ben imballato.
In effetti qualcuno ha già usato questa espressione – “maneggiare con cura” – a proposito del mondo della scuola e vale la pena di rilanciarla perché è capitato più volte, in particolare nei mesi scorsi, di incappare in manifestazioni di fragilità inattesa da parte di ragazze e ragazzi che magari sembrano macchine invincibili, capaci di tutto, e invece si scoprono spesso inadeguati al mondo che li circonda, fino addirittura a compiere il gesto più tragico che si possa immaginare: togliersi la vita. Magari perché non si è riusciti a superare un insuccesso scolastico.
In questo orizzonte di pensieri, nell’ottica del “maneggiare con cura”, vale la pena di leggere la lettera scritta dagli studenti del liceo Berchet di Milano (e sottoscritta da tantissimi rappresentanti di altre scuole), che chiede “il necessario riconoscimento di una dignità della fragilità”.
E’ una bella riflessione sulla scuola quella che fanno gli studenti del Berchet, attingendo in partenza alle parole di Mario Untersteiner, docente del liceo milanese fino alla Liberazione, e poi preside “in quanto unico professore dell’istituto a non aver aderito al Partito Nazionale Fascista”: “La scuola dev’essere amicizia, o non è scuola affatto”.
Cosa vuol dire? Amicizia è un termine impegnativo e in ultima analisi indica l’attenzione reciproca, empatica, tesa al bene di chi si trova in relazione. In effetti la scuola deve essere così – e non di rado lo è: troppo facile indicare sempre e solo le criticità – cioè un posto dove generazioni diverse fanno strada insieme, unite, sia pur con compiti e responsabilità differenziati, da obiettivi comuni. Una strada dove sarebbe bene che nessuno restasse indietro e che – così sembra di cogliere dall’appello che viene dal Berchet – se succede che il passo di qualcuno sia particolarmente affaticato, si possano trovare tempi e occasioni per rallentare il ritmo, aspettare, avere pazienza.
Non è un richiamo a una scuola più “facile”. “Non vogliamo passare – così nella lettera degli studenti – per quelli che cercano riduzioni dei programmi didattici, come si è fatto strumentalmente intendere sui media, né per quelli che non vogliono impegnarsi”. Piuttosto la richiesta è quella di maggiore attenzione ed empatia, in nome del riconoscimento di un “disagio” che non sarebbe una “condizione isolata”. “In altre parole – è di nuovo la lettera degli studenti –, non chiediamo di studiare meno, vogliamo studiare meglio, in un ambiente sereno e fertile in cui lo studente non si senta alienato ma riconosciuto nelle proprie specificità”.
Hanno ragione gli studenti del Berchet e con loro tutti gli altri. Sembra però di poter dire, lanciando un salvagente a chi si sente in acque agitate, che il più delle volte la scuola è davvero quello che si chiede. Gli adulti che vi operano – collettivamente, perché l’educazione scolastica è un compito condiviso – hanno spesso ben presente la questione. E qui allora un suggerimento: la si legga insieme – studenti e insegnanti – nelle aule la lettera del Berchet, per ricordare a tutti che non ci sono partiti contrapposti, che “atteggiamenti oppressivi e dispotici” non hanno cittadinanza, che il fronte per la “scuola dell’amicizia” è comune.
Anche così ci si va incontro e si supera il “disagio”.

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Fonte: Sir