La pace? La costruiamo noi se non ci lasciamo andare a offese e maleducazione

Di fronte agli sconvolgimenti dell’ordine mondiale, almeno per come lo abbiamo conosciuto negli ultimi quarant’anni, ci sono temi che possono apparire di poco conto, se non addirittura naïf. Eppure, per quanto possa sembrare impossibile, tra la tensione politico-militare che cresce su scala planetaria e la sguaiatezza che caratterizza la nostra società di oggi a noi sembra di vedere un legame. 

La pace? La costruiamo noi se non ci lasciamo andare a offese e maleducazione

Questa riflessione prende il là da due episodi accaduti nello scorso fine settimana in terra veneta. Due offese, di differente gravità, che tuttavia danno l’idea della maleducazione e del turpiloquio nei quali viviamo immersi, con il rischio di rimanerne impregnati a nostra volta. A Rossano Veneto, in un post sui social, un consigliere di minoranza ha pensato bene di apostrofare con il titolo di “balena” un’assessora dopo averla vista sfilare in maschera al carnevale paesano. A Motta di Livenza, nel Trevigiano, la mamma di un giovanissimo giocatore di basket avrebbe insultato la 18enne arbitro così: «Cosa ci fai qui l’8 marzo? Vai a fare la prostituta, vai a casa» (e temiamo che l’epiteto sia stato addolcito dai colleghi delle cronache locali). Si dirà: sono i social, i social sono pieni di queste espressioni; i famosi “leoni da tastiera” – buontemponi perdigiorno che stanno sul web ore e dietro a false identità si permettono ogni nefandezza – spopolano oramai da decenni, da quando cioè i social hanno dato loro diritto di parola nelle agorà digitali (sempre più piene, a differenza di quelle reali). È vero, ma non è tutto qui. Per chi al mattino ascolta la radio, non è più una sorpresa sentire Giorgio Zanchini – conduttore della storica trasmissione “Radio anch’io” di Rai Radio 1 – rampognare qualche ascoltatore che offende giornalisti, politici o altri ascoltatori via WhatsApp o sms. Insomma, l’offesa, la maldicenza, l’espressione volgare sono tutte intorno a noi e spesso anche dentro di noi. Ma la questione non è solo lessicale, ha risvolti ben più profondi da un punto di vista sociale e relazionale, che ci dicono quale tipo di convivenza civile (non) abbiamo in mente. Permettersi qualsiasi tipo di uscita, specie se si ricoprono incarichi istituzionali o se ci si rivolge a giovani, significa non avere alcuna percezione del proprio ruolo nella sfera pubblica. Ognuno di noi infatti, al di là della professione svolta o della posizione ricoperta, contribuisce a purificare o inquinare il clima sociale, dà vita a relazioni solide e costruttive o, di converso, tossiche e distruttive. Rendersi conto dell’influenza che possiamo avere sulla pubblica piazza, nel bene o nel male, è fondamentale per stendere una scaletta di priorità e agire in base ai nostri valori: è più importante la mia libertà nell’esprimere un giudizio su una persona, anche con un linguaggio puntuto, o fare un passo indietro nella convinzione che nel, medio o lungo periodo, il silenzio di oggi permetterà di operare per il bene insieme nel futuro? La grande riflessione sulla pace e sul riamo in atto oggi in Europa ha radici nella quotidianità di ognuno di noi. Se non partiamo dalle relazioni più prossime, la pace non si potrà costruire nemmeno nel contesto geopolitico internazionale. La pace infatti è un prodotto artigianale: ha caratteristiche uniche; viene fatta “a mano”, cioè spendendosi in prima persona, mettendo in campo tempo e competenze; ha bisogno di cura e “manutenzione”, non è fatta una volta per sempre. E soprattutto necessita di regole, come a un prodotto corrisponde una funzione, così alla pace corrisponde un atteggiamento da parte di tutti: la libertà di ciascuno termina dopo inizia quella degli altri, altrimenti si genera un quadro in cui emerge il più ricco o il più forte, quella libertà fittizia che il vicepresidente degli Usa, J. D. Vance, ha evocato nella conferenza di Monaco di Baviera alcune settimane fa. Basta una post o una parola urlata in pubblico, quindi, per generare o minare la pace.

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